venerdì 30 dicembre 2011

Lost in Rio de Janeiro



La sterminata Zona Norte di Rio de Janeiro, una lenzuolata infinita di aree e quartieri di basso valore e favelas senza soluzione di continuità. Il tutto si perde nella luce smorta di una giornata di cielo coperto e basso a tagliare le cime dell’Alto de Boavista. E’ la giornata in cui finalmente torno a visitare qualcosa di nuovo, e scelgo la Igreja da Penha, nome abbreviato per un sudamericanissimo come completo che recita Igreja Matriz de Nossa Senhora da Penha da França.


La Igreja è costruita in cima a un morro, uno di quei tanti roccioni di granito rotondi e levigati in mezzo a piatte distese che sembrano sassi che paiono scagliati e conficcati nella sabbia. La cima del morro accoglie con la sua spianata naturale il santuario, la balconata, e la lunga scalinata di accesso scavata nel granito. Vedevo questa chiesa, lontanissima, un po’ da ogni punto della città nel Centro e nei dintorni, non svettante ma propiziamente isolata nella distesa abitata della zona nord, e la vista dalla sua balconata conferma le aspettative: il Pan di Zucchero lontano eppur grande che sembra più grande da lontano che da vicino, i grattacieli del Centro, la baia, il ponte, l’isola Paquetà, scorci della Serra Verde Imperial tra le nuvole, lo schifo della raffineria di Magé, colline e montagne lontane dell’Alto da Boavista, colline vicine spalmate di favelas. Tutta la zona nord è qui intorno, sterminata esattamente come la si intuisce già dai belvedere di Santa Tereza. Chi viene qui probabilmente è gente di quartieri circostanti e delle favelas che ci sono alle spalle, mi domando se riesco a mimetizzarmi a sufficienza con la mia barba che fa più brasiliano bianco della zona Sul che altro.

Il viaggio da e per è un viaggio nella Zona Norte tutta. Attraverso tra andata e ritorno quartieri e favelas con nomi forse poco rassicuranti per chi ne conosce poco: Bonsucesso, Penha, Complexo do Alemao (le sterminate favelas teatro degli sgomberi dei trafficanti del novembre 2010) e il suo teleferico, poi Pilares, Meier, Engenho Novo, Jacaré, Vila Isabel, Tijuca, Maracanà. Una sequela senza soluzione di continuità di enormi avenide trafficate, piccole stradine di quartiere, strade maestre di favelas, tunnel, piazze animate, supermercati, aree industriali, vecchi edifici storici deturpati. Il tour della zona Norte al ritorno dalla chiesa prende 3 ore, complice anche un malinteso per un pullman che non ferma al capolinea ma anzi segue una linea circolare. E' anche sbagliando pullman che si scopre una città.

Banana Joe

Rio, quanto tempo! Non posso fare più a meno di notare che ogni volta che rientro dall’aeroporto cerco le novità, guardo quanto la città è cambiata, in vista delle olimpiadi e dei mondiali, e come cambia! Spuntano ponti nuovi, il perna de mulher che è il pilone portante che pare la gamba di una donna che sorge dall’acqua della laguna come fosse uno spettacolo di nuoto sincronizzato, ci sono le favelas sterminate ma sempre più pacificate, ci sono i lavori in corso nelle vie dimenticate del Centro.

Con le orecchie ovattate dalla caduta di un aereo da 10’000 metri e l’ambiente a chiusura stagna della macchina che sfila lungo la linha vermelha è un disco di Maria Gadù che completa il benessere di questa sensazione di inusuale “ritorno a casa”. Guardo il traffico, commento il volume del traffico, guardo la Igreja de Nossa Senhora da Penha come si guarda Superga all’arrivo da Caselle, guardo le montagne e la propaggine del Corcovado come si guardano le Alpi, cerco il Pan di Zucchero là in fondo come si cerca la guglia della Mole quando non c’è smog.



Qualche giorno dopo sul pullman espresso che parte dall’aeroporto viaggio insieme ai turisti in arrivo, provo a vivere il loro arrivo e l’eccitazione delle loro prime immagini di Rio de Janeiro coi loro occhi meravigliati. Non ci riesco, loro con zainoni e io con la mia misera bustina di documenti: ormai conosco troppo questa città per fare finta che sia tutto nuovo.Sono forse a casa e ancora non lo so?

Alla Polizia Federale devo fare il mio visto brasiliano. Nello squallido ufficio tutto plastica e luci al neon sono in attesa di un carimbo, il famigerato timbro sul passaporto che mi allunga la vita brasiliana di due anni. Il carimbo sudamericano si associa immediatamente a Banana Joe e il memorabile Pinco Pallino al ministero per ottenere il certificato di nascita per cui servono timbri su timbri. Apprendo inoltre dal mio nuovo visto brasiliano che… sarei sposato.


Per natale nella Lagoa hanno piantato un immenso albero di luminarie, splendido alla sera mentre si riflette sull’acqua insieme allo sfondo delle luci di Ipanema e Leblon e alla sagoma dei morros, oltre al bonario Cristo defilato sopra di noi. Ma l’aria di natale non intacca l’aria estiva della zona Sul, rare luminarie quasi non si vedono tra le ciabatte e i capelli bagnati di chi passeggia per Ipanema. E’ qui che passeggiando con Gabi e alcuni suoi amici capita sorprendente di incontrare vari giovani artisti brasiliani, che quasi non ci si crede: un’attrice e il suo marito cantante, che passeggiano come se niente fosse lungo la Visconte de Pirajà. Del resto Ronaldo e Nùbia, gli amici di Gabi, sono loro stessi attori di teatro e televisione (novelas!) in giro tra Rio e San Paolo. E seduti in un ristorantino al pomeriggio ecco pure che si ferma un maggiolino: sono due ragazze che vogliono salutare Ronaldo, anche loro

sono attrici, una di loro forse la vedrò su rede Globo nella prossima novela das 9.

Avendo recentemente visto Midnight in Paris di Woody Allen (e ricordando la serie “Le avventure del giovane Indiana Jones”) penso a come potrei un giorno raccontare di nuovo questo strano pomeriggio, mentre si parla di attori noti nel mondo per la loro bravura e che io avevo conosciuto agli albori della loro brillante carriera. Buona fortuna a tutti loro.

domenica 11 settembre 2011

Parigi, infine!

Parigi! E con questa destinazione si chiude il simbolico Orient Express iniziato a Istanbul e proseguito accidentalmente, fortunosamente e fortunatamente con le vicende di Bucarest. Una settimana di viaggio, mondi diversi sempre più vicini e ugualmente sempre più intolleranti.

Ma adesso, Parigi. L’arrivo è inusuale, per chi è abituato a passare di qua come semplice tappa, una fugace vista dall’oblò dell’aereo quando si ha la fortuna di avere il posto vicino al finestrino, uno sguardo alle foto “romantiche” in bianco e nero nelle cartolerie e carabattolerie (chincaglierie, letteralmente, come giustamente le chiamano qua in Francia). Viaggiano con me vacanzieri (non solo Parigi, ma facenti scalo), partenti Erasmus, lavoratori in missione, africani di passaggio, a giudicare dall’accento gabonese della famigliola seduta davanti, quanti ricordi!

Stavolta è per me Parigi. Inizio ad accorgermene al momento di salire sul RER, che è il treno più indecente del mondo, essendo di servizio per l’aeroporto e non avendo i costruttori previsto un poggiabagagli che sia uno sopra i sedili come invece si trova in ogni vagone del mondo: gente che viaggia coi bagagli addosso, tra le gambe contorte, e soprattutto gente che deve viaggiare in piedi perché i sedili sono occupati dai bagagli di chi ha preso il treno al capolinea, cioè all’aeroporto. E attraverso Sevran, la cittadina di cui si parla nel mitico “Puoi chiamarmi fratello” come di una tipica cittadina satellite di banlieu illuminate dal sole Parigi ma con famiglie che non hanno mai visto da vicino questo sole, più per disinteresse che altro.

Il disastro dei RER di Parigi continua alla centralissima Chatelet les Halles, stazione dove tutti cambiano treno, e per tutti si intende centinaia di passeggeri per volta: tutti a testa per aria a cercare disperatamente informazioni sui treni. E in effetti sembra che i parigini sulle banchine del RER passino la maggior parte del tempo a capire dove stia andando il treno che hanno di fianco, da quale parte vada il treno che devono prendere loro, quale ramo ferroviario percorrerà (perché ogni linea o ha diversi capolinea o ha lo stesso ma tratte diverse per raggiungerlo). Io non sono da meno, riesco a passare 20 minuti (certamente consono l’unico) ad aspettare notizie da un tabellone che si rifiuta di accendersi per indicare dove vada il treno di fianco, mi viene in soccorso una ragazza evidentemente allenata a dare una mano agli sventurati viaggiatori del mitico RER di Parigi.

Quando parte, il treno si riempie di una moltitudine da grande città, praticamente sono rappresentate tutte le colonie del passato della Francia, eppure ho sentito un accento “intruso”, che sembrava portoghese dell’Angola… che ci fanno qua e non a Lisbona? Il treno attraversa infiniti fasci di binari, è impossibile contare quanti TGV ho visto, di tutte le serie, decine e decine di TGV di ogni epoca dei suoi gloriosi 30 anni (che infatti le SNCF celebrano quest’anno), incluso lo strano TGV postale giallo degli anni ’80 e i treni della Manica. E mentre cala vistosamente la densità abitativa dei quartieri attraversati, stranamente aumenta anche la bellezza delle aree residenziali: appena lasciata la Gare de Lyon con gli ultimi edifici alti, ecco comparire i quartieri e poi le cittadine nella foresta, tutte casette eleganti, manieri, case a graticcio, tetti a spiovente, bei cortili. Non male per l’immagine di banlieu fatta a orrende scatole di scarpe in cemento di altri settori. Pian piano il paesaggio assume l’aspetto di campagna alternata a villaggi in stile nord francese. Il treno si svuota, fermata prima del capolinea, un’altra cittadina, altra “provincia”, addirittura altro dipartimento, adagiato sulla Senna che ancora non ha incontrato Parigi. Per fortuna se ne sono andati anche quei molesti di ragazzi poco raccomandabili che si divertivano a cantare musicaccia hip hop ad alta voce nel vagone pieno, facendo scappare metà vagone nei vagoni adiacenti: non li ho più visti, li avrà fatti sloggiare la polizia che ha rastrellato il treno forse avvisata da alcuni passeggeri.

domenica 7 agosto 2011

Diario del mare

Il mare. Anzi, il mare Oceano, dall’altra parte del mondo, lato Nuovo Mondo. Mai uguale.

Giovedì. Mare agitato, vento forte che schiuma onde alte e lunghe, si barcolla quando si cammina e ci si culla quando si dorme, e l'orizzonte è troppo mobile. Potrebbe essere uno splendido vascello a tre alberi, di quelli che un tempo venivano qui a scoprire nuove coste nel Nuovo Mondo, o che portavano “al lavoro” Charles Darwin, o anche la fantasiosa Surprise di “Ai confini del mare”, invece è un'orrida piattaforma.

Venerdì. La quasi tempesta di ieri, placatasi, lascia uno strascico di onde amplissime: lunghe, alte, lente, dal livello più alto della piattaforma, quasi di nascosto, guardo il mare dove l'orizzonte non più fisso è tagliato da un piovasco lontano.

Sabato. Le onde, oggi, provengono da nord, quasi come se le onde di ieri grandi come dune stessero ritornando indietro rimbalzate dalla terraferma di Cabo Frio. Chissà se ci sono già le balene in queste acque?

martedì 26 luglio 2011

Samba na rua

http://www.youtube.com/watch?v=OrfLmPUlKag

Il piacere di poter cantare insieme a una folla carioca un classico brasiliano: “Na cadencia do Samba”, favoloso samba del 1974 dei mitici Novos Baianos, sebbene sia una fatica non da poco riuscire a trovare i loro cd nei negozi.

Nel quartiere Saùde, a pochi passi da uno dei grandi capolinea degli onibus di Rio, ecco una piazzetta chiusa tra vecchie casette e un orrido palazzone costruiti sopra il granito della Pedra do Sal, un tempo quasi dirimpetto al mare e dove veniva scaricato il sale proveniente dalle navi. La roccia, lisciata da 400 anni di calpestii, è una stradina che porta verso la cima del morro, i gradini scolpiti nel granito e l’odore dell’umidità, da dove un tempo si vedeva il mare calmo della baia di Guanabara appena dietro il monastero di Sao Bento arroccato su un promontorio e adesso invece si è costretti ad apprezzare il mega grattacielo che seppellisce indecorosamente il promontorio.

E’ qui che quando arriva la sera si mette un tavolo, qualche sedia, una lampadina penzolante e i musicisti cominciano a suonare samba, ben presto attorniati da centinaia di ragazzi che si arroccano sul granito o affollano il piccolo spazio della piazzetta. La gente conversa, beve, mangia (piatti nordestini cucinati da nere matrone in abiti flocloristici), e quando è visibilmente “presa bene” canta insieme, del resto sono tutti pezzi classici brasiliani come per noi i classici da gita in pullman “La canzone del sole” o “Azzurro”.

Si finisce presto, questa non è la zona sul di Rio dove tutti sono in vacanza perenne tra Copacabana e Ipanema, questo è il centro-nord, zona dove la sveglia suona già alle 6 se non anche alle 5 per scendere a bottega. La gente se ne va piano piano, i raccoglitori di lattine completano il lavoro di tutta una cercando le ultime preziose lattina sul suolo pieno di spazzatura.

lunedì 23 maggio 2011

Silchester: alpaca pascolano tra le rovine romane

Un muraglione eretto con pietre di durissima selce e l’ovale delle tribune dell’anfiteatro appena fuori, ecco quello che resta nei secoli dei secoli di tante città romane, il cui resto visibile della gloria materiale dell’impero, giunto fino a qui, si riduce ai ruderi di costruzioni militari e di svago. Anche a il nome, a dire il vero, ricalca la sua eredità latina: sono a Calleva Atrebatum, oggi Silchester, cittadella romana del Berkshire, il suo nome risuona del mitico “chester”, chiarissimo rimando al “castrum” romano, e quel “Sil” iniziale che, a fare i latinisti della domenica, sembra proprio rifarsi a quella selce lucida e durissima con cui eressero il muraglione di difesa.
Dell’”accampamento di selce”, in realtà, non rimane molto altro: quardo all’interno delle mura, in una bella giornata di sole, ed ecco gli stessi dolci pascoli e blandi rilievi che si vedono anche alle mie spalle. Immancabili pecore pascolano dove c’erano le case della cittadina, piccoli ciuffi di foresta separano le proprietà dei pascoli. Si riesce a vedere tutto il perimetro del miraglione, provo a immaginarmi la città. Il muraglione, come ogni costruzione romana è stato trasformato in cava di pietra per costruire gli edifici nei secoli successivi dai pigri o disastrati medievali, proprio qui ne ha beneficiato la bellissima chiesetta protestante piantata nel suo immancabile giardinetto di erba rasa e brillante disseminata di lapidi di ardesia, perché se fossero anch’esse in selce sarebbe troppo duro scolpire i nomi e le date, e i vari Caesar, il cognome più diffuso su queste lapidi (non a caso, si direbbe), non potrebbero farci sapere del loro “passaggio in questa vita” nel 1777, o nel 1785, ma anche nel 2002.
In un pascolo appena oltre la chiesetta eccon un pezzo d’America che mi raggiunge anche qui: tre alpaca lanosi pascolano l’erba che nel loro continente non esiste. Sono uno bianco, uno bruno, uno nero. Quello bianco mi tiene d’occhio a distanza, quello nero ha la lana in testa che sembra un taglio anni ’50.
Sui paletti del recinto, Madame Anne annuncia le sue favolose torte fatte in casa.

Le scogliere di Dover

Seduti sul ciglio delle meravigliose e impressionanti scogliere bianco brillante appena fuori Dover, non ci sembra vero che questo sia il nostro ritrovo di nuovo tutti insieme dopo tanti anni di lontananza e fugaci incontri in Italia. Siamo qui, con la Francia nitida davanti a noi, il Continente, le navi in rotta tra le coste dei due orgogliosi e altezzosi vicini di casa europei e il pensiero del treno che corre sotto il mare.
Guardando il paesaggio, la sensazione è quella di passeggiare sopra il gessetto da lavagna (e infatti è così che lo chiamano qui: chalk). Queste rocce splendide coperte da un manto erboso brillante come uno smeraldo sembrano modellate da una macchina che abbia improvvisamente tranciato un bello e dolce paesaggio lungo una linea netta e strappato via la terra per fare posto al tavolato del mare 40 metri più in basso.
Stiamo appollaiati quasi sospesi a decine di metri sopra il mare, insieme a gabbiani in volo verso chissà quali nidi sulle pareti a strapiombo, e siamo proprio noi sullo stesso suolo in cui probabilmente tutto ebbe inizio 11 anni fa, l’epoca in cui dopo un mese insieme ci eravamo salutati dicendoci “allora ci ribecchiamo poi a Torino” e in realtà quasi sicuramente pensavamo “chissà se ancora mi ricorderò di te tra un mese”. Ci ricordavamo benissimo, e infatti dopo 11 anni siamo qui, non solo chi c’era 11 anni fa, ma anche chi c’è stato dopo.
Sembra proprio che tutto si ricolleghi a tanti momenti in comune che abbiamo avuto in cui ci siamo conosciuti o ci siamo scoperti un po’ più a fondo, specialmente qui a Canterbury: passeggiare tra le stradine del centro a ammirare l’arte delle casette medievali sembra quella passeggiata a Firenze l’anno scorso; ascoltare un coro e sentire un organista che prova nella immensa cattedrale riporta a una identica esperienza a York tanti anni fa.
Il finale di giornata è ancora una volta il nostro modo di essere: un ironico panino a Sandwich.

Gli italiani pensano sempre al cibo?

Kingston, capitale della Giamaica. Kingston, anche una delle svariate cittadine sparse per il globo che portano il marchio della colonizzazione britannica fino ai più sperduti scogli australi. Kingston, qui a Londra è però semplicemente un bel sobborgo in riva al Tamigi nella zona ovest, un Tamigi piccolo che potresti lanciare un pallone sull’altra sponda, già percorso da canottieri e abitato da cigni, dove il mare ancora non arriva a imporre le sue maree e tutto ha l’aria di una cittadina di provincia.
Cittadina da negozi chiusi sprangati nel giorno di festa, sfidando il vento forte tutti si riversano sul lungo fiume per il passeggio, come noi cinque, che dopo aver sfidato il vento abbastanza decidiamo di goderci la vista sul fiume da uno dei tanti locali sulle sponde eppure uno dei pochi ad avere la cucina aperta oggi che è festivo: come si fa a chiudere la cucina quando tutti sono in giro? Ma più in generale, come si fa a chiudere la cucina alle 8-9 di sera quando la gente esce? Qualunque italiano nel mondo francofono e in quello britannico si fa sempre queste domande, e infatti piacevole è la sorpresa di trovare aperto a Hither Green un delizioso localino perfettamente arredato in cui da bravi italiani nostalgici ci godiamo una colazione “dolce” nella patria del bacon e uova e salsiccia e fagioli: vedo i miei amici italiani migrati qui che quasi con la bava alla bocca e gli occhi lucidi pensano a cappuccini fatti come dio comanda, a focacce grondanti olio e piene di cristalli di sale, a ingredienti che non sono solo piante ornamentali; e del resto è proprio come mi sento io in Brasile durante il mio turno di prigionia, solo che per fortuna per me dura solo un mese. Noi italiani pensiamo sempre al cibo, proprio vero.
Col cibo davanti (tra l’altro, eccellente) di uno dei rari locali con cucina aperta a Kingston, cinque italiani si godono il pomeriggio col sole in faccia, ammirano la luce aranciata e tiepida del pomeriggio che filtra attraverso ricercate birre inglesi, si raccontano le loro storie da migranti e viaggiatori, ovviamente lontano da casa.

lunedì 9 maggio 2011

Bartali?


Il turista in casa oggi mi permette di godermi la città invasa per la combinazione di Giro d’Italia e adunata degli alpini. E io ci vado a vederlo, il Giro, ma non aspetto Bartali, il giorno non è appiccicoso di caucciù ma di gente pressata per la doppia occasione, tanto che la città oggi sembra immensa, forse perché con tutta la calca ci si muove lentamente e le distanze sembrano ingigantite come nelle classiche città turistiche.

Nella città paralizzata dal doppio evento con ressa nelle vie e vie sigillate per il giro io provo ad avvicinarmi col 4, per poi farmela a piedi vicino al centro, ma i mezzi nord-sud sono tranciati in due perchè in corso Vittorio passa il Giro, la città è come divisa da un muro di Berlino in cui chi sta a sud non può entrare in centro, chi sta in centro non riesce a uscirne. Ecco Porta Nuova, per un giorno la stazione è come la Porta di Brandeburgo, luogo d’incontro dei settori in cui oggi pare divisa Torino: in un senso la ferrovia che da sempre taglia in due la città a sud, nell’altro senso il corso Vittorio ermeticamente transennato e invalicabile. Passare nei settori divisi dalla ferrovia si può, basta sgomitare in stazione e tentare di passare tra est e ovest, impossibile invece è il passaggio nord sud per poter entrare in centro. Ci sarebbe la metropolitana, che scorre proprio sotto il corso, a permettere il passaggio tramite le stazioni che hanno scale di qua e di là. Ci sarebbe se non ci fossero i vigili a presidiare i varchi e anche a selezionare le decine di migliaia di persone che ci provano: un vero e proprio checkpoint; tra i presenti proviamo ad immaginare stratagemmi per oltrepassare il corso…

Ovunque è una parata di penne nere più o meno vere, ogni piazzola o aiuola è un campeggio per camper o tende (poter campeggiare tra i palazzi settecenteschi: beati loro!) con tavolate e cucine da campo, sia nei giardinetti del centro che, apprendo da alcuni alpini, lontano fino ai parchi lungo la Dora e la Stura. La sfilata è caratterizzata dal risaltare degli accenti mediamente nordestini (spiccano, forse perché al nord ovest sono meno comuni degli accenti meridionali) e soprattutto dal notare come gli alpini sentano irresistibile il bisogno di parlare urlando, cosa che si nota particolarmente con i gutturali suoni dei dialetti del nord. Per il resto sono sfilate di mezzi improbabili come api scoperchiate, carrettini con panche, trattori, macchinine modello, botti motorizzate, oppure cori improvvisati così come bande organizzate, vecchi amici che si ritrovano, nuovi che si conoscono, divertenti intrusi a cena. E con la festa degli alpini la città si riempie di almeno 400'000 uomini, e purtroppo bisogna dire che la differenza, in una città in cui di solito le pur belle donne escono ma non troppo, la differenza sembra quasi non notarsi.
Il Giro in questo marasma passa davvero, mistero come le ruote riescano a sopravvivere a quelle macchine affettatrici che sono i binari del tram tra l’asfalto disconnesso. Qui siamo lungo un corso e le squadre della crono ci passano davanti rapidissime, tutto quello che riesco a vedere dell’ultima squadra è nulla più che una macchia di colore di cui riesco appena a distinguere i caschi levigati e il nero degli occhiali da sole, tra torinesi che si incazzano e i giornali che svolazzano.

lunedì 18 aprile 2011

Ilha Grande



C’è tutto per far sembrare Ilha Grande un’isola antillese. Storie di pirati olandesi, inglesi e francesi. Spiagge gialle incontaminate e mare cristallino. Palme alte e sottili fin sul bagnasciuga, a svettare brillanti nel cielo. Foresta impenetrabile, piena dei suoni degli animali e di radici;
dal mare echeggia misteriosamente. Ristorantini di pesce in spiaggia. Relitti affondati o naufragati. Una colonia penale tristemente famosa per la sua durezza durante la dittatura militare, tanto da guadagnarsi il titolo di Alcatraz brasiliana, ma anche Cayenna. Storie di indios.

La giornata inizia prestissimo, e finisce tardi. E tutto sempre nel mio stile: cibo quasi zero, acqua poca, ore di sonno minime; mi sostenta un pacco di wafer, relitto dei miei souvenir dall’Italia che spesso apprezzano i miei compagni di lavoro. Andare a Ilha Grande da Rio de Janeiro è un viaggio lungo (e anche un certo salasso), ma merita ogni minuto e ogni real. Tutte le montagne di Rio de Janeiro, le stesse che si modellano nel Pan di Zucchero e nel Corcovado, proseguono a ovest lungo la costa, a creare la rinomata Costa Verde fatta di grandi picchi rocciosi e vaste insenature, talvolta collegate da sottili strisce di sabbia lunghe decine di chilometri oppure a creare magici paesaggi di fiordi e microarcipelaghi. Ad Angra dos Reis il paesaggio è molteplice: ricorda la Liguria per i monti scoscesi e a picco sul mare, ricorda le penisole dalmate per la profondità di certe insenature, e soprattutto ricorda i caraibi con la visione di Ilha Grande là nella baia, grande e imponente oltre ogni immaginazione. Ilha Grande è tetra ma anche brillante, e soprattutto è la definizione di “incontaminatezza”. Sull’isola non esistono veicoli a motore e nemmeno strade, solo sentieri. Per raggiungere una destinazione sull’isola o si marcia a lungo per le lunghe distanze o si prende la barca, non esistono altre vie.

E tutto davvero mi ricorda l’anno vissuto in Guadalupa. Non soltanto i paesaggi e le spiagge da cartolina, ma anche il capoluogo. Si sbarca ad Abraao, in una vasta insenatura sormontata dal Bico do Papagaio, roccione che corrisponde all’iconografia caraibica: un pietrone, un dente che spunta dai rilievi coperti di foresta e che lui stesso ospita alberi sulle sue pareti quasi verticali esclusa la cima. Il Bico sovrasta Abraao e la sua chiesetta bianca, una chiazza brillante che introduce la cittadina. Il villaggio si spalma sulla costa, coperto da palme brillanti. Solo due strade principali, il lungomare e una via interna intitolata ovviamente a Getulio Vargas, pià una serie di traverse costellate di casette e villette, residenze private e pousadas, bar e agenzie turistiche, in mezzo alle palme. Sono le 8 di mattina e il borgo è animato dall’attracco delle due barche principali della giornata, un grosso viavai di turisti, isolani, viaggiatori, vacanzieri. Chi sale in barca con zainoni e calzoni e scarpe e un viso esperto e chi sbarca in costume e ciabatte con l’aria di chi ancora ha tutto da scoprire. Tutto mi ricorda la Désirade, nei paesaggi, e le Saintes, nell’animazione mattutina.

In barca, al ritorno, ascolto un signore che racconta a un visitatore che ha conosciuto al molo tutto quello che sa dell’isola. Lui ci ha vissuto a lungo, ne conosce i luoghi più ignoti e le storie. Il suo amico lo ascolta, più che altro lo asseconda, senza parlare, forse volendo che faccia silenzio per poter riposare, ma ascolta educatamente. La barca si fa largo tra le centinaia di siolotti e scogli minori di questa splendida baia, Io nel dormiveglia al tramonto di una giornata lunga e stancante, mi godo le sue storie di relitti e pirati, di prigionieri famosi e di ville misteriose.


Il percorso: Rio de Janeiro - Angra dos Reis


Visualizzazione ingrandita della mappa

domenica 17 aprile 2011

Favela Vidigal, Liguria

Quella avenida Niemeyer che sotto la roccia strapiombante corre sinuosa e stretta tra le palme e le ville, ben trafficata in questo fine pomeriggio, tagliata nella roccia viva sopra a scogli e calette, col sole tramontato alle spalle del roccione, sembra proprio l’Aurelia. E quelle piccole case con stradine tortuose e strette e le scalinate e i passaggi tra le case, sembrano proprio dei carrugi liguri, tra piccole costruzioni di cemento e mattoni a vista aggrappate alla roccia con i passaggi stretti tra due pareti e in fondo, in basso, il mare lontano. E anche il traffico, i giochi di precedenze, i panni stesi fuori, la gente appollaiata sulle sedie o sulle balaustre in ciabatte e costume, sembra tutto soprendentemente un trapianto di Liguria e in generale di Mediterraneo qui alla favela Vidigal, appena a ovest della esclusiva Leblon e ai piedi dei coreografici Dois Irmaos protagonisti di ogni tramonto da Ipanema. Anche l’infinita sensazione di trascuratezza e sciatteria non può non far venire in mente la Liguria, solo che qui l’età media è estremamente bassa, tutti ragazzini e giovani e pochi anziani.

Pauroso il traffico. Sono rari furgoncini (i van, trasporto pubblico) e rarissime macchine, qui comandano i motorino: per forza, unici in grado di percorrere agilmente le strette e irte strade della favela: arrancano in salita, si lasciano cadere spenti in discesa, ti sfiorano che sembra un assalto continuo, e non sempre le luci piantate in faccia aiutano a togliersi dalla strada. Chi vuole raggiungere le proprie case deve poi continuare prendendo una delle tante scalinate di cemento ammuffito ripide come scale a pioli, insinuandosi tra le case degli altri e infilandosi tra resti di foresta fitta franati chissà dove e cicatrizzati con gettate di cemento.

E con François, piacevolissimo compare con cui a Nizza solo due mesi fa ci eravamo incontrati per fare escursioni, qui, più mimetici che mai, ci godiamo lo splendido panorama al calar della notte. Da questo mirador in cima alla favela si gode la favela adagiata sul versante di questo immenso roccione tagliato dalle nuvole, circondato da foresta. Sopra di noi è un planetario di aquiloni incredibilmente alti nel cielo che i bambini fanno volare appollaiati sopra i tetti. Sotto, una città di 50'000 abitanti ammassati in piccole case coi tetti piani e le cisterne blu dell’acqua piovana, le stradine nascoste, il brulicare di umanità sulle scalinate. Paesaggio così mediterraneo che non riesco a non pensare a una versione di Modica non in pietra. E là in fondo, brillante e meravigliosamente variegata, la striscia di Ipanema stretta tra oceano e laguna, e poi tra oceano e montagna, e la laguna chiusa tra Ipanema e altre montagne, il Cristo e il Pan di Zucchero che spunta sopra altre montagne, Niteroi lontana oltre la baia. Che città!

Solo quel tipo sullo spiazzo, insieme a noi, con lo sguardo da duro di un ragazzino che si cala nella parte del duro più per poterlo dire alle ragazze che non per altro, che sta lì a scrutare i tetti vestito in ciabatte e maglietta e con un cappottone di pelle nero, che tiene una racchetta da tennis, ci chiediamo cosa stia facendo. La risposta migliore la dà la custodia della racchetta, rigonfia al centro di un oggetto tubolare: dunque, una racchetta vera e propria non è, un violino direi nemmeno… Se ce lo eravamo dimenticati, rammentiamo subito che questa favela non è ancora stata pacificata come altre (come quelle della zona nord liberate dalla ormai famosa irruzione di novembre), per cui d’accordo che è una delle più popolari tra gli stranieri, passi che addirittura già alcuni stranieri affittino qui e si comprino addirittura una casa (3000 euro appena), ma evidentemente ancora esiste un grosso interesse dei trafficanti a controllare questa favela che del resto ha la grande Rocinha appena dietro il roccione, la più famigerata.

Noi scendiamo, ormai è buio, le lucine delle casette di fronte alla strada che precipita in basso è l’esatta immagine dei presepi oppure delle turistiche stoffe dipinte che si trovano a Copacabana. E in una pizzeria-pasticceria che trasmette la novela das 6, il mio immancabile (e, qui a Vidigal, anche il più economico) pezzo di torta al cioccolato.

sabato 16 aprile 2011

"Rio"

Vedere il nuovo film di animazione “Rio” proprio a Rio de Janeiro, non ha prezzo! Se escludo i 27 reais (carissimo) del biglietto 3D.

Davvero piacevole vedere questo film e non solo riconoscere luoghi che ho visto e che ancora mi mancano come il sambodromo, il bonde di Santa Tereza, la Rocinha, vedere uccelli ormai familiari e anche qui piccoli e pericolosi scimmiottini con i ciuffetti bianchi sulla testa che tanto divertono i turisti attorno al Pan di Zucchero. E con i carioca che si esaltano al vedere la propria città e ridono al vedere le “cartoline” brasiliane e carioca del film.

Ma è stata una bella giornata in generale, a passeggiare per Copacabana e a scoprire Leme insieme a Valeska rediviva, a scoprire il succo di cacao (i semi tali e quali a come sono nella cabossa del frutto di cacao, un succo denso bianco e dallo strano gusto agrodolce), a cenare arabo al chiosco.

Pessima chiusura: al ritorno verso casa il motorista del van decide di fare una strada diversa, prende una via contromano verso Urca, ma al fondo ci aspetta la polizia. Il poliziotto ci ferma e grida con la pistola puntata al motorista, gli intima di scendere, ma il motorista cincischia incredulo, così il poliziotto urla e per un attimo sposta la pistola puntandola verso noi passeggeri per convincere il motorista che non sta scherzando, e finalmente, mentre noi passeggeri ne abbiamo avuto abbastanza e scendiamo in fretta, il motorista scende, spaventato dall’evenienza che il poliziotto possa dare di pazzo e colpire uno di noi.

Non oso pensare quale debba essere il trattamento riservato a infrazioni ben più gravi di un contromano in una via deserta. La polizia di Rio de Janeiro è troppo abituata a una grossa criminalità e a situazioni pericolose e ad usare una durezza che in Italia non conosciamo. Noi torniamo a piedi, lui non so come se la sia cavata.

giovedì 14 aprile 2011

C'è sempre una partita da vedere in Brasile!

Un bimbo alto biondo come uno svedese scarta a fatica un bimbo indio dai capelli neri lisci lucenti, passa la palla in mezzo, il suo compagno secco e nero tira e il portiere, un omettone che potrebbe essere metà francese e metà coreano vola verso il palo e devia, spettacolare.

C’è sempre una partita da vedere in Brasile! Non voglio qui ricalcare uno dei grandi luoghi comuni per dire che il calcio è la passione dei Brasiliani, o che il calcio domina la vita, o le solite cose. La gente si riunisce ai vari bar, guarda la partita, commenta, urla, bestemmia, fa la formazione, imbocca l’allenatore, tifa, esattamente come in Italia o in Tunisia o in qualunque altro paese del mondo in cui il calcio è sport nazionale. Semmai, qui in Brasile il calcio spezzatino è già realtà: ci sono partite in televisione ogni giorno, ad ogni ora. Al pomeriggio tardi, quando è già sera in questo autunno tropicale, ecco giocare Botafogo, Fluminense, Vasco da Gama, Santos, Corinthians, ma anche Macaé, Avaì, squadre non note internazionalmente. Si giocano tutto. E soprattutto giocano sempre. Coppe, campionati statali, campionati nazionali, c’è anche la copa libertadores con le squadre uruguayane, argentine, colombiane. E dopo questa abbuffata di calcio americano, anzi prima perché c’è il fuso orario, ci sono ovviamente i maestri europei, coi campionati italiano spagnolo e inglese, oltre alla coppa dei campioni, ci mancherebbe! Anche se magari è solo per vedere all’opera i tantissimi emigrati sportivi americani, i vari Julio César, Doni, Melo, ma anche i gran capelloni argentini Messi, Tevez.

Dicevo, non è per raccontare le solite storie sul calcio, perché basterebbe cambiare qualche nome e questo testo andrebbe benissimo anche in Spagna o Italia, è per raccontare di altre partite, quella che stavo descrivendo coi bambini, appunto.

Mentre lasci Ipanema col tramonto infuocato sopra i Dois Irmaos con le lucine della favela Vidigal (da noi sarebbe una delle Cinque Terre…), mentre il Pan di Zucchero in fondo alla curva perfetta di Copacabana riceve i visitatori più romantici e fortunati (o sfortunati, se come succede spesso proprio al tramonto si ferma un ciuffo di nuvola proprio sulla cima), mentre i bagnanti lasciano la spiaggia, ecco che alla spiaggia degli sportivi dove si gioca a calcio, calcetto, beach volley, beach soccer, e anche una curiosa attività di molleggiate acrobazie in bilico sopra una fettuccia elastica tesa tra due palme, si danno il cambio avventori del bagnasciuga e le numerosissime scuole sportive che allevano giocatori e atleti di ogni età. Si allenano lì proprio di fianco alle mitiche onde bianche e nere del lungomare, fanno corsa e allenamenti ed esercizi, poi inizia la partita.

Ecco, quando inizia la partita, anche se a giocare sono dei ragazzini o dei bambini sui 10 anni, chi passeggia per il lungomare non resiste e si ferma, si siede, si gode la partitella. Una partita è sempre una partita, non serve che siano i campioni in tv, ai brasiliani sembra piacere anche vedere giocare i bambini, questi bambini brasiliani frutto di ogni mescolio di razza esistente sulla terra. E come giocano bene! Forse un giorno alcuni di loro avranno un pubblico diecimila volte maggiore rispetto a noi passanti di Copacabana.

mercoledì 13 aprile 2011

Obbado


Obbado. Ma che vuol dire? Intende Obladà come la canzone dei Beatles? Obbadom. No. Cambia poco…. Ombaadom. Sarà mica… On bottom! E’ inglese! Forse. Parlano così i tanti americani di Texas e Mississippi e Luisiana, personale della piattaforma che è americana, con quella loro lingua che non si capisce se sia proprio inglese o una qualche altra lingua a base di tabacco masticato, con quella loro solita aria strafottente stile “io so' americano e voi nun siente un cazzo”. Neanche altri americani di altri stati che sono qui come New Jersey o Nebraska o gli inglesi a volte riescono a intendere tutto quello che dicono i loro bifolchi connazionali.

Fortuna che è pieno di brasiliani coi loro bei sotaque di San Paolo (do interwriowr), di Rio (trintaissseish pessowassh do Riu) e rari di Curitiba (Curiciba) e Sergipe (Sehrhjipi), e anche di argentini con le loro elle e esse introvabili, tutti che parlano anche un inglese basico ma di pronuncia ineccepibile e inarrivabile per la media italiana e purtroppo anche per gli statiunitensi del sud… Compagni di lavoro: Carla, Jonas (memorabile la sua battuta “lo sapevi che il 99% delle persone che muoiono in Cina sono cinesi?”), Deidimar e Diego brasiliani, Luciana e Victor argentini.

E’ un’altra piattaforma, l’ennesima: altre persone, altri modi di lavorare, altri modi di fare, altri orari, altri pregi e altri difetti, tutto quanto da scoprire occupando come al solito la prima settimana; sono sperso anche stavolta mentre cerco passaggi segreti tra le passerelle e i corridoi, ancora a volte facendo la strada più lunga per andare in bagno o facendo tutti i 3 piani dell’edificio abitabile per riuscire a trovare la mensa.

Siamo sempre al largo di Cabo Frio, che si riesce a scorgere tra la foschia marina in alcune giornate. Intorno c’è una folla di altre 5-6 piattaforme più relative navi di appoggio più pescherecci che ci forniscono il pesce dei dintorni (dintorni di una piattaforma??), mica come in Venezuela che stavamo soli e isolati nel bel mezzo della baia tra Venezuela e Colombia.

Altra piattaforma, altra stanza: soliti condizionatori impostati su gelo di alta montagna, ganci e ripiani assenti (ma nel Nuovo Mondo non sono arrivati?), bagno non isolato acusticamente (in una stanza da 4 in cui si dorme in 2) nessun tavolino, cuscini ultrapiatti (ma a che servono?).

Il volo è dall’aeroporto turistico di Jacarepaguà che sta dietro la Pedra da Gàvea in Barra da Tijuca, (l’aeroporto da cui è partito Obama il giorno del mio arrivo). Scopro un paesaggio nuovo anche lungo la strada per l’aeroporto: la avenida Niemeyer, sopraelevata che corre sopra gli scogli (da noi sarebbe un ecomostro) di fianco alla foresta tropicale e sotto l’immensa parete verticale della Pedra da Gàvea, che buca i Dois Irmaos (la silhouette di tutte le foto di Ipanema) e sfila in Sao Conrado dopo aver lambito l’immensa Rocinha, 350'000 persone abbarbicate nella favela maggiore del Brasile e quell’aspetto, strano ma vero, di vecchia città mediterranea fatta di stradine e casette sovrapposte.

Luce del mattino, cielo clemente, foschia scenografica: Rio mi sfila interamente di fianco, in tutta la sua bellezza di città gigantesca e stretta tra mare e montagne con una varietà di paesaggio così sorprendente che ne avrebbe da vendere ad alcune nazioni intere.


giovedì 24 marzo 2011

Il brasile! (l'albero)


Giornata di cielo coperto, giornata di parchi, giornata di passeggiate in compagnia. Oggi stranamente tocca ai due luoghi che avevo visitato prima di farmi scippare a Copacabana mesi fa, così oggi sono riuscito finalmente a portarmi a casa anche qualche foto che era andata perduta.

Il Parque Lage è un fantastico parco ai piedi del Corcovado, con villa neoclassica dotata di patio con piscina adibito a scuo

la di arti visive, si vede che il Cristo dona ispirazione quaggiù. Per un po’ mi sembra di essere in Gabon: pur essendo artificiale, il parco è una area di piante e alberi di una densità tale da non poterci camminare in mezzo, e con le scimmie che saltano tra i rami.

Eccolo il famoso brasile: un bell’albero dal tronco chiaro arrugginito e chioma frondosa. Fa bella mostra di sé nello splendido Jardim Botanico, voluto dal re Joao VI poco dopo il suo arrivo a Rio de Janeiro nel 1808. Al Jardim è un piacevole bis in compagnia di Saci, una ragazza giapponese in cerca di alternative rispetto a Tokyo che non le piace (soprattutto adesso col disastro nucleare) e che parla in ottimo italiano dall’accento romano.

Magnifici viali di palme reali sottili e altissime, il giardino giapponese (Saci si sentirà a casa?), l’area della Mata Atlantica, le serre con le orchidee, le bromelie, e poi palme ovunque, alberi del viaggiatore, fichi dai tronchi giganteschi, ciuffi di bambù immensi, tucani in volo, stagni con ninfee.

Che quiete! Eppure siamo davanti a una delle vie più rumorose della città, rumore assorbito da tutte queste piente, e anche la vista pare isolare questo gioello botanico, non si vede un solo palazzo, simao circondati dalle montagne del Corcovado, dei Dois Irmaos e della Pedra da Gavea e anche dal cielo sulla laguna coperta da muri di piante. Sul tutto vigila come sempre il Cristo Redentore. Il Cristo fa parte di uno spettacolo invidiabile per chi percorre la rua Sao Clemente in Botafogo: al fondo della via verso ovest, il Cristo altissimo, alle spale lato est la sagoma del Pan di Zucchero; io provo a godermi la vista dal pullman, il tempo non mi manca siccome c’è un traffico bestiale.

Mi tolgo la soddisfazione di una picanha niente male: Saci mi porta in una churrascaria a Copacabana per un giro di rodizio, così oltre al buffet ogni 2-3 minuti ci arriva un cameriere con mezzo metro di spiedo di carne varia (salsiccia, ), una scodella, un enorme coltello. Il cameriere posa la scodella al tavolo, punta lo spiedo, e taglia lesto una sottile fetta di carne per noi. E dire che a Torino nella via c’è un ristorante brasiliano e io non ci sono mai andato nemmeno per sbaglio una volta.

mercoledì 23 marzo 2011

Aguas de Março


Pois as aguas: elas fecham o verao (Poi le piogge, che chiudono l'estate)

Rio de Janeiro, talmente grande e varia geograficamente e morfologicamente (deformazione professionale…), che anche il clima varia da un quartiere all’altro: da una parte splende il sole, altrove diluvia, in cima alle montagne è coperto e tira vento.

Questa metropoli non è su una piatto paesaggio di pianure o altipiani dove dove il cima bene o male è uniforme, non è neanche una città adagiata tra le montagne, semmai sono le montagne che si trovano incluse nella città, rendetevi conto. Non è che a Rio de Janeiro o piove o fa bello come vedete nel meteo nel mondo nell’ultima pagina dei quotidiani, semmai c’è il sole a Ipanema, e intanto diluvia a Tijuca, tira vento nel Centro, piove a Gamboa, si soffoca di calore a Copacabana, incappuccia di nuvolozzi il Pan di Zucchero, si fa il bagno a Sao Conrado, nasconde alla vista il Cristo Redentore.

Così, combinare di uscire con amici che abitino in punti tanto lontani tra loro presuppone il consultare il meteo della città per organizzarsi: “ok, allora ci vediamo a Ipanema”, “ma sta diluviando!” “forse da te a Tijuca, ma qua a Botafogo non piove, almeno non ancora”, “forza, venite a Ipanema che qua c’è un bel sole e le nuvole sono ferme alla Pedra da Gavea!”

Ringrazio i blocchetti dei marciapiedi di Rio e le radici degli alberi che li divellono, così posso camminare coi piedi all’asciuto cercando un guado nell’acqua che allaga la città durante questo diluvio pomeridiano. Stavolta non è lo sgocciolare abbondante di 15 piani di condizionatori, sono le piogge che chiudono l’estate, (le aguas de março di Tom Jobim e Elis Regina): diluvia a secchiate, goccioloni che formano crateri nel terriccio, pozzanghere profonde da non vedere il fondo sporco, getti d’acqua dagli angoli dei tendoni ambulanti delle edicole. E la gente, i carioca, pare abbastanza abituata, altrimenti non andrebbero in giro senza ombrello oppure non si butterebbero comunque sotto il diluvio. Ogni tanto smette, ma smette di piovere incessantemente per fare posto a una fine pioggerellina, troppo fine per impensierire i carioca che continuano a marciare sotto l’acqua. Vedo gente in giacca e cravatta, gente in vestiti comuni e anche gente vestita alla veloce (come in Italia nessuno avrebbe il coraggio di vestirsi nemmeno per dormire come pigiama) coi capelli bagnati, le spalle delle maglie e delle giacche scurite dall’acqua piovana, le scarpe e il fondo dei calzoni fradici pieni dei petali caduti al suolo, l’espressione di chi si è appena preso una secchiata d’acqua ma pazienza si va avanti lo stesso come se niente fosse.

Mi dirigo al Museu Historico Nacional con questo clima, da sopra i palazzoni del Centro spuntano le montagne sfumate dalla pioggia e in parte coperte da bianchissime nuvole sfilacciate dal vento in quota, per cui ogni tanto appare il Cristo Redentore. Splendido il museo, con una sezione dedicata alla storia politica del Brasile dall’arrivo del Re del Portogallo Joao VI nel 1808 in fuga da Napoleone fino alla fine dell’impero nel 1888, questo Brasile dormiente fino a poco fa ora potenza mondiale, e infatti Dilma oggi in tv annuncia che ormai un consiglio di sicurezza dell’ONU è impensabile senza il Brasile settima economia del monto. Ma sono anche collezioni di vetture e portantine, di spade, di quadri cerimoniosi, di ritratti dei baroni del caffè paulisti, ceppi di schiavi, disegni di Taunay durante la mitica spedizione di Langsdorff nell’interno del Brasile, studi di statue, e poi chissà cos’altro visto che come mia consuetudine nei musei ci passo le ore e anche stavolta mi devo fare accompagnare fuori con le luci ormai già tutte spente a metà della mia visita.

Torno lentamente a piedi fino a Riachuelo-Fatima, dal Centro, lunga camminata. Di nuovo passeggio in mezzo alla folla liberata dagli uffici, che si riversa nei fondi delle vie e del Grand Canyon della avenida Rio Branco; sono centinaia di taxi e ancora più centinaia di pullman, la gente ordinatamente in fila ad ogni fermata perché qui in Centro ognuno delle centinaia di pullma ha la propria fermata… Gente che parla, gente che sbaracca le bancarelle e i negozi (nel centro la vita finisce all’ora di cena e il sabato), colleghi che si bevono una birra al bar, chi guarda la partita (anche qui, c’è SEMPRE una partita in tv). Le vie del centro ancora preservato, le mitiche rua Buenos Aires, Alfandega, Senhor do Passos, tanto piene di giorno, di sera si svuotano pericolosamente. Seguo il flusso sperando di non incappare in vie buie e secondarie animate solo più da disperati che si accampano o personaggi poco raccomandabili, fino a quando zigzagando tra gli isolati finisco in avenida Mem de Sa, la via di Lapa.

Lapa! E’ solo martedì e già c’è la folla sui marciapiedi: si ascolta musica dal vivo provenire dall’interno delle decine di locali, la via risuona dei ritmi di bossanova e samba, la gente abbozza dei passi.


http://www.youtube.com/watch?v=WaU0gDSmi84

martedì 22 marzo 2011

Inizia l'autunno

Riposo, non sentendo più il bisogno e la necessità di correre fuori affamato di conoscere la città e la gente, ora che la città ogni tanto la giro come se ci abitassi da tempo e le persone che rappresentano le mie giovani e ancora sottili radici qui mi basta chiamarle quando hanno finito al lavoro.

Tento di andare a piedi per queste vie facilmente identificabili come poco raccomandabili la notte, ma piacevolmente affollate di giorno, e quindi via verso Lapa! Gli archi (Arcos da Lapa, ricordo una scena di CSI Miami girata proprio ai piedi degli archi lato Santa Tereza, sulle gradinate piastrellate di rosso a scritte bianche, il tutto coi colori saturi e vividi tipici di CSI Miami) non sono ancora stati riverniciati per intero, mancando due arcate, che già il bianco brillante che avevo visto stendere a novembre è già sbiadito e macchiato dalla muffa che cola dalla cima. La muffa, quel colore nero che caratterizza tantissimi angoli lerci di Rio de Janeiro per l’umidità, muffa che si sviluppa istantanea e inarrestabile su ogni superficie appena un po’ rugosa.

La Fundiçao Progresso è la mia tappa di oggi, appena dietro gli archi, davanti al cono orrendo della cattedrale, con lo sfondo dei palazzoni violentatori del Centro, con le palme davanti. Qui, in primavera (australe, quindi a settembre), c’era stata la partenza della spettacolare parata di Maracatù, gonne volanti e tamburi incessanti: la Fundiçao Progresso, ex fabbirca, infatti è sede di diverse scuole di danza e luogo culturale in un bell’edificio in acciaio e mattoni vivacemente colorati. L’artista Guta ha dipinto (con pennelli ma anche creato con photoshop) delle splendide tavole che raffigurano il Largo do Carioca, il Largo da Lapa e Praça XV in diverse fasi dal 1680 ad oggi: immagini impietose le tavole del 1988, in cui è evidente lo stupro vergognoso fatto alla città cancellando le meraviglie barocche, neoclassiche e liberty di cui Rio de Janeiro era piena.

Pensavo di andare a fare un giro a Botafogo (avessi detto Copacabana o Ipanema, e invece io scelgo Botafogo-Humaità), ma passando dal Centro sono rimasto come al solito troppo estasiato da pensare di andare altrove.

La avenida Rio Branco al crepuscolo è un gigantesco canyon urbano, pareti illuminate, sul cui fondo scorre di un fiume incontenibile di pedoni all’ora dell’uscita dagli uffici, le vie laterali, altri canyon minori sono gli affluenti di questa strada a senso unico dove corrono centinaia di autobus verso sud, in direzione della spettacolare scenografia della silhouette nera del Pan di Zucchero incorniciata dalle facciate lontane. Davanti al Teatro Municipal manifestano contro Cabral, il prefetto dello Stato di Rio de Janeiro, sorvegliati da una decina di mezzi della polizia; tante belle macchine fanno scendere tante belle ragazze in abito da sera e valigiotto: portano uno strumento musicale, scopro che in queste sere al teatro si proietta Metropolis di Fritz Lang con colonna sonora direttamente suonata dall’orchestra: voglio andarci!

Per il resto sono passeggi a caso seguendo la folla che esce dagli uffici, che se ne torna a casa, che va per negozi, che fa merenda nei mille bar di strada. Io passeggio per le minori e stilose rua da Quitanda, rua Sete de Setembro, rua da Alfandega, mi fermo per il sacro succo d’arancia spremuto al momento con fetta di torta al cioccolato, poi di fronte mi butto nella splendida Livraria da Travessa a spulciare libri: Platone, Nietzsche, Kant in portoghese, ma anche Rio dall’alto, Africa, politica, lettartura in lingua originale, monografie di Michelangelo; al piano di sopra, dove la libreria è mista a caffetteria, mi sorprende il rumore inconfondibile di una macchina che prepara un cappuccino buono.

Obama parte, io arrivo

Oggi è una giornata speciale per Rio de Janeiro: spazio aereo chiuso, vie bloccate, traffico intasato a Copacabana, motoristi che bestemmiano, polizia in allerta: mica per me! È che c’è Obama; è venuto a visitare Rio de Janeiro, per rendere omaggio alla potenza del Brasile, si è concesso un giro nella un tempo famigerata favela Cidade de Deus (quella del film), un pranzo con ricevimento al Teatro Municipal, una salita notturna al Corcovado per vedere la città meravigliosa illuminata al tramonto sotto le braccia del secondo Cristo più famoso del mondo. Si è lasciato appena intravvedere dalla massa di Carioca venuti per strada apposta per poterlo vedere, e adesso se ne va di già.

Obama parte, io arrivo. E Gabi che già scherza dicendo che sì, oggi con la partenza di Obama e il mio arrivo Rio ci guadagna: per me non serve chiudere la città!


Cupo il viaggio, nonostante uno splendido tramonto sopra le Alpi, con vista privilegiata sul Monte Bianco e poi sulla torre Eiffel, appena allietato dall’ultimo di Woody Allen e da un bel film giapponese, Hanamizuki, potente catalizzatore di molti miei pensieri di questi mesi. L’arrivo non è più agognato come anche solo la volta passata, eppure sono qui per grazia ricevuta siccome le notizie erano che col Brasile avevo finito.

In aeroporto i cartelloni pubblicitari che esaltano le caratteristiche locali sono le prime immagini per il viaggiatore o turista: sono per lui la conferma dei luoghi comuni su cosa visiterà (o vorrà volere visitare) ma anche sulla società. Torino accoglie con gigantografie della Mole e delle Langhe, a Caracas Chavez annuncia che ora il Venezuela è di tutti, a Rio de Janeiro la prima foto che vedi è il Cristo Redentore e il Pan di Zucchero, ma anche una magnifica panoramica delle cascate dell’Iguazù. Le cascate dell’Iguazù! In bilico sulle scale mi sono sorpreso a fermarmi per guardarle, non ci ho visto la foto che avevo davanti, ma le spettacolari e personali immagini impresse nella mente dalla visita che ho fatto a gennaio

Questa volta sono in zona Riachuelo – Fatima, un bairro ai piedi del bel quartiere antico elegante di Santa Tereza, e poco lontano dalla mitica avenida Mem de Sà che è la via della notte carioca nella nobile decaduta Lapa. Poco lontano, ma abbastanza da richiedere cautela già all’ora di cena e estrema attenzione la notte: la porzione di Santa Tereza qui sopra è quella che digrada e si perde nelle favelas sopra il tunnel Rebouças, e raggiungere e soprattuto superare la zona di Lapa presso gli archi e quindi la stazione Cinelandia della metropolitana non è per niente una faccenda da affrontare con leggerezza. Se penso che la prima sera con Fiorenzo ci siamo avventurati da soli allo sbaraglio proprio per le vie dietro gli archi! Curioso albergo, in una zona non di Centro e quindi con edifici di altezza normale, io infatti sono al quarto di sei piani, in un palazzo che, scendendo le scale, scopro avere la caratteristica di avere un odore diverso ad ogni piano: al quarto sa di ospedale, al terzo odora di fiammifero, al secondo puzza di cloro, al primo profuma di colazione, e al pian terreno, nella hall, già assaporo il profumo e l’odore della città meravigliosa che qui brulica di migliaia e migliaia di carioca, non turisti.