mercoledì 13 aprile 2011

Obbado


Obbado. Ma che vuol dire? Intende Obladà come la canzone dei Beatles? Obbadom. No. Cambia poco…. Ombaadom. Sarà mica… On bottom! E’ inglese! Forse. Parlano così i tanti americani di Texas e Mississippi e Luisiana, personale della piattaforma che è americana, con quella loro lingua che non si capisce se sia proprio inglese o una qualche altra lingua a base di tabacco masticato, con quella loro solita aria strafottente stile “io so' americano e voi nun siente un cazzo”. Neanche altri americani di altri stati che sono qui come New Jersey o Nebraska o gli inglesi a volte riescono a intendere tutto quello che dicono i loro bifolchi connazionali.

Fortuna che è pieno di brasiliani coi loro bei sotaque di San Paolo (do interwriowr), di Rio (trintaissseish pessowassh do Riu) e rari di Curitiba (Curiciba) e Sergipe (Sehrhjipi), e anche di argentini con le loro elle e esse introvabili, tutti che parlano anche un inglese basico ma di pronuncia ineccepibile e inarrivabile per la media italiana e purtroppo anche per gli statiunitensi del sud… Compagni di lavoro: Carla, Jonas (memorabile la sua battuta “lo sapevi che il 99% delle persone che muoiono in Cina sono cinesi?”), Deidimar e Diego brasiliani, Luciana e Victor argentini.

E’ un’altra piattaforma, l’ennesima: altre persone, altri modi di lavorare, altri modi di fare, altri orari, altri pregi e altri difetti, tutto quanto da scoprire occupando come al solito la prima settimana; sono sperso anche stavolta mentre cerco passaggi segreti tra le passerelle e i corridoi, ancora a volte facendo la strada più lunga per andare in bagno o facendo tutti i 3 piani dell’edificio abitabile per riuscire a trovare la mensa.

Siamo sempre al largo di Cabo Frio, che si riesce a scorgere tra la foschia marina in alcune giornate. Intorno c’è una folla di altre 5-6 piattaforme più relative navi di appoggio più pescherecci che ci forniscono il pesce dei dintorni (dintorni di una piattaforma??), mica come in Venezuela che stavamo soli e isolati nel bel mezzo della baia tra Venezuela e Colombia.

Altra piattaforma, altra stanza: soliti condizionatori impostati su gelo di alta montagna, ganci e ripiani assenti (ma nel Nuovo Mondo non sono arrivati?), bagno non isolato acusticamente (in una stanza da 4 in cui si dorme in 2) nessun tavolino, cuscini ultrapiatti (ma a che servono?).

Il volo è dall’aeroporto turistico di Jacarepaguà che sta dietro la Pedra da Gàvea in Barra da Tijuca, (l’aeroporto da cui è partito Obama il giorno del mio arrivo). Scopro un paesaggio nuovo anche lungo la strada per l’aeroporto: la avenida Niemeyer, sopraelevata che corre sopra gli scogli (da noi sarebbe un ecomostro) di fianco alla foresta tropicale e sotto l’immensa parete verticale della Pedra da Gàvea, che buca i Dois Irmaos (la silhouette di tutte le foto di Ipanema) e sfila in Sao Conrado dopo aver lambito l’immensa Rocinha, 350'000 persone abbarbicate nella favela maggiore del Brasile e quell’aspetto, strano ma vero, di vecchia città mediterranea fatta di stradine e casette sovrapposte.

Luce del mattino, cielo clemente, foschia scenografica: Rio mi sfila interamente di fianco, in tutta la sua bellezza di città gigantesca e stretta tra mare e montagne con una varietà di paesaggio così sorprendente che ne avrebbe da vendere ad alcune nazioni intere.


Nessun commento:

Posta un commento