sabato 27 novembre 2010

Prigione acquatica

Festa di partenza in serata a Copacabana, mi accompagna Julia, incontriamo parecchia gente per passare l’ultima mia serata normale, un ultimo accumulo di vita necessario in vista del mese di reclusione acquatica, al costo di dormire poco o niente. Tento di dormire in macchina nel viaggio fino a Cabo Frio, e mi sarebbe piaciuto riuscirci davvero a dormire, così almeno avrei evitato di vedere le brutture ignobili e indescrivibili della periferia di Rio de Janeiro e delle città vicine, orrende distese di capannoni, di squallide case tropicali, di strade squadrate senza nome salvo anonimi codici di riferimento: ovunque la sensazione di una infinita trascuratezza, nonostante sia una zona compresa tra una delle città più belle del mondo e delle montagne fantastiche. In questi quartieri centinaia di migliaia di persone vivono la loro vita quotidiana, e questo non significa che siano tutti dei poveracci, perché ho anche visto villette e persone indubbiamente benestanti; li vedo al buio dell’alba girovagare per dirigersi alle fermate dei pullman in luoghi che non vorresti girare nemmeno di giorno. Che cosa ci fanno in questi posti, perché uno sta qui? Ci sono capitati qui oppure è stata una scelta? Qui lavorano e quindi in queste zone abitano oppure qui abitavano e quindi qui hanno cercato lavoro? Hanno ambizioni e aspirazioni oppure gli va bene così? Guadagnano poco perché qui la vita costa poco oppure semplicemente hanno scelto di spendere poco a vantaggio di altri sfizi? Che cosa è la qualità della vita? In cosa si misura? Nell’abitare in un bel centro a qualunque costo, nel poter vivere in campagna qualunque essa sia? E io, che mentre li osservo sto andando verso la mia prigione acquatica, sto forse meglio di loro perché almeno mi sono goduto Rio de Janeiro gratis?

Piattaforma nuova anche stavolta, per l’ennesima volta è come se dovessi ricominciare tutto da capo: conoscere le persone, imparare i procedimenti di qua, individuare la posizione delle attrezzature su questa piattaforma, e soprattutto riprendere dopo due mesi di pausa. Compagni di lavoro: Mary, argentina, Analicia e Felipe, brasiliani.

La piattaforma nel complesso è meno peggio dell’ultima, ad esempio la mensa ha le finestre sul mare e luce naturale anziché i freddi neon di un locale nel cuore degli alloggiamenti. La stanza almeno è da due e non più da quattro, finalmente un po’ di riservatezza e solitudine dopo le 12 ore; e anche un tavolino con una televisione (non mi interessa, al massimo i notiziari, per seguire la situazione a Rio adesso che c’è l’esercito) e qualche gancio in più. Ma il bagno: suqllido come quello di un treno, semibuio, manca lo specchio e la doccia (più che altro uno spruzzo) è ad altezza spalle. Alle lenzuola non vorrei mai fare l’esame del luminol.

Buon lavoro.

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