giovedì 9 luglio 2015

Nel mare di notte

Ci sono volte in cui la notte nel mare è talmente buia che mare e cielo si fondono in un unico spazio nero, che confonde i sensi: non si trova più l’orizzonte, non si percepisce più il sopra, il sotto, il vicino, il lontano, sembra di essere dentro ad una sfera buia, inconsistente, sospesi nel centro, a fluttuare nel vuoto assoluto, come in una grotta senza luci quando si sperimenta il buio pesto, o come nel sonno quando si chiudono gli occhi e il dormiveglia accompagna la mente nel primo passaggio tra la realtà e il sogno.
Quando pare di vedere delle lucine fioche, lontane come in fondo al deserto dei Tartari, ecco che navi o cantieri distanti sembrano là per indicarti l’equatore della tua sfera di buio, come a ricordarti che tu esisti ancora nello spazio fisico, e che esistono ancora un sopra e un sotto.
E dire che invece in certe notti è il mare ad essere buio e il cielo ad essere chiaro. Da dove arriva il tenue chiarore del cielo, di tutti i cieli? C’è Libreville non molto lontano da qui, a volte il bagliore del suo cielo, oltre il lembo che delimita l’estuario, sembra visibile appena con la visione periferica, quella che sola aiuta a vedere gli oggetti dei cielo più deboli ad occhio nudo. Come fa il cielo a emanare questo impercettibile chiarore, saranno forse i miliardi di stelle invisibili?

Ma stanotte nel mare non c’è nemmeno la luce debole del brillio di una perla di un qualche colombre.

martedì 7 luglio 2015

Vista sull'equatore

La linea della costa non lontana è una linea gialla brillante, invitante nei giorni di sole, e azzurrognola nei giorni uggiosi, è la costa tra Port Gentil e Libreville. Nel mare poco distante da qui c’è un “palo” piantato nel mare, è un vecchio pozzo, di giorno sporge dal nulla, versione marittima del monolito di “2001 Odissea nello spazio”, di notte è la lanterna di un faro impossibile.
Trovata una mappa di localizzazione intuisco che siamo quasi sull’equatore, pare ad appena 600 metri, una distanza pari alla lunghezza di Piazza d’Armi a Torino, il palo sta appena al di là, la linea giace proprio nel mezzo. La linea dell’equatore… uno di quei luoghi speciali nella geografia del nostro pianeta, seppure intangibili: a Quito in Ecuador, nel parco dedicato, solo il gioco del mulinello d’acqua che cambia verso spostandosi di pochi metri a nord o a sud lo svela in parte.
Mi ricordo che da bambino pensavo che l’atlante, in quanto rappresentazione del mondo, fosse talmente reale da credere che le scritte fossero anch’esse veramente esistenti, guardavo la cartina al mare e mi immaginavo per questo che al largo della Liguria, se avessi nuotato a sufficienza, avrei trovato le lettere della scritta “Mar Ligure”. Provo allora almeno a immaginarmela la linea dell’equatore, di un tratto di china sulla carta provo a vedere una linea solida che galleggia leggera sulle onde, ne indovino il prolungamento a terra, fino alla spiaggia, e oltre in mare lontano fino a dove compare il Brasile, per poi continuare a filare sul Pacifico, tagliare l’Indonesia, filare lungo la foresta equatoriale, e riapparire di nuovo sulla spiaggia alle mie spalle.

Mi torna in mente un esploratore recente che ha seguito la linea dell’equatore a nuoto e a piedi intorno a tutto il mondo, era partito proprio da qui, da un cippo di segnalazione nella bella linea dorata della spiaggia qui davanti. Me lo immagino mentre passa di qua, tra me e il palo piantato nel mare, che si lascia l’Africa alle spalle in una linea di schiuma delle sue bracciate. Ora le navi di appoggio stanno ancorate proprio sulla linea, come di proposito.

Tra me e il palo sfila l'equatore

venerdì 3 luglio 2015

L'italiano al lavoro

Come Barry Lyndon quasi mi commuovo: sento parlare italiano.
Ho sempre trovato divertente la scena di Barry Lyndon (il mio film preferito di Stanley Kubrik) in cui il protagonista, inviato in Prussia a spiare lo Chevalier de Balibali, attraversa il salone, si presenta, e cogliendo il suo accento irlandese cede, dopo un attimo di esitazione, a una commozione che gli fa rivelare di essere stato mandato a spiarlo. Barry ha appena trovato un connazionale esule compagno di sventura, il narratore dice “chi non si è mai trovato in esilio capisce a fatica cosa possa significare una voce amichevole in terre ostili”.
A me è successo qualcosa di simile, senza commozione ma ugualmente d’impatto: è stato mentre entravo nella sala radio al mio arrivo in cantiere, ho sentito parlare inglese col tipico accento italiano, e poi in italiano quando ci siamo presentati. È la prima volta in tanti anni di lavoro in questo settore - qui c’è l’ENI - con personale italiano e coi geologi locali (gabonesi e congolesi) che sanno parlare italiano; solo una volta, tranne all’esordio, con Roberto avevo avuto un collega italiano durante lo stesso turno e un geologo italiano, era in Venezuela, da allora più niente, ero sempre stato uno straniero che imparava le lingue del posto per avvantaggiarsi subito e per poi poter conoscere il paese (spagnolo in Venezuela, portoghese in Brasile). Un piacevole esilio in terre non ostili.

Adesso posso usare la mia lingua, e quasi non mi sembra vero di potermi esprimere al meglio, tanto che a volte tendo a scandire le parole come se parlassi con degli stranieri, come se ancora ci fossero barriere linguistiche scavalcate dallo sforzo di uno dei due interlocutori. E poi mi sorprende il linguaggio tecnico in italiano, parole e termini che mi suonano sconosciuti oppure termini che non corrispondono alla traduzione delle parole che usavo finora: staffoni, canala, obiettivo, camicia. E mentre talvolta devo chiedere come si chiamano nella mia lingua gli oggetti che conosco in inglese, portoghese, francese o spagnolo, scopro così l’esistenza di un linguaggio tecnico italiano di tutto rispetto, un bel lascito di tutte le grandi e piccole aziende e dei lavoratori italiani che soprattutto nei decenni passati si sono distinti nel mondo.

sabato 27 giugno 2015

Sveglia Port Gentil!

Gli alberi di mattina sono sonori, gli stessi alberi silenziosi tra cui la notte avevo visto cacciare un gigantesco pipistrello. Aspetto l’autista che mi porterà all’aeroporto, ho deciso di aspettarlo fuori nel cortile, c’è una brezza che definire brezza di mare è un po’ troppo vago, visto che Port Gentil sta su una lingua di sabbia protesa verso l’Oceano. In questa brezza del mattino che scuote anche le foglie possenti delle palme e dell’albero del viaggiatore sento gli alberi risuonare dei canti degli uccelli che si godono il mattino, quelle ore splendide in cui sembra che il giorno appena sorto prometta di tutto. C’è un suono che distinguo, è un canto più lungo e insistente, un fischio che si ripete ogni volta più basso di un semitono e che spicca su tutti gli altri per intensità e durata, e mi si apre una finestra nel tempo: è lo stesso canto che ascoltavo nella foresta fitta, 6-7 anni fa, quando dopo il turno notturno me andavo a passeggio per le strade nella foresta. Ero spesso da solo e la natura che si era svegliata da poco nemmeno si accorgeva di un bipede che andava a zonzo per le strade rosse tagliate nella foresta solida, e questo muro verde altissimo stava appena oltre il ciglio della strada in terra rossa battuta, sapevo che oltre quel muro esistevano e vivevano quelle ore del risveglio insetti di ogni sorta, uccelli tra rondini e pappagalli e il re della canopea il calaò, serpenti, gruppetti di macachi, e soprattutto pensavo agli animali più grossi e pericolosi, quelli che avrebbero potuto attraversare quel muro e pararmisi di fronte se non alle spalle, gli elefanti o le pantere le cui rare tracce erano visibili a saperle vedere.

Il muro verde

Ecco l’autista, mi carica e mi porta all’aeroporto. Attraversare il quartiere residenziale in cui mi trovo è un affare interessante per chi si diverte a cercare “contraddizioni” in Africa. Le villette sono eleganti e ben tenute, aggraziate da prati all’inglese e decorate da pacchiane colonne greche, hanno il servizio di guardia notturno, e aiuole con piante decorative lato strada. Ma la via… la via è sterrata, quello sterrato che nella lingua di sabbia su cui sorge Port Gentil significa appunto sabbia, quasi la sabbia delle spiagge mista però a terriccio, che invade le belle aiuole e che nel continuo lavorio di piogge intense e di pneumatici di suv si dispone appunto in dune vere e proprie. Mi puntello mentre superiamo queste gobbe enormi su cui i potentissimi suv sfruttano come unico pregio quello di essere rialzati e sono costretti ad avanzare a passo di bici, al loro passaggio si generano tsunami nelle pozzanghere senza fondo attraversate come guadi di fiumi lungo piste selvagge.

Attraverso le strade principali che portano all’aeroporto ecco Port Gentil già sveglia. Non sono ancora le 7, ma la città è già animata da attività che stanno aprendo, lavoratori che pendolano a piedi o in taxi, studenti che vanno alle lezioni. In Africa, in Centro e Sud America - nelle regioni tropicali insomma - la giornata inizia presto e finisce presto: si sta dietro al ciclo solare complice anche un orario di luce che non cambia molto durante l’anno, vita privata e pubblica iniziano poco dopo l’alba, così mezzanotte sembra davvero l’ora della notte fonda. E’ come se si vivesse 1-2 ore prima dell’Europa – o delle medie latitudini. Confesso che la massima sorpresa l’ho avuta a Rio de Janeiro: nei quartieri della zona nord, più popolari, tutto inizia già dalle 6-7, nei quartieri eleganti, ricchi e turistici della zona sud, Ipanema-Leblon-Copabacana, raramente vedevo attività aperte prima delle 8-9. E’ come se vivere tardi fosse un aspetto se non un’ostentazione del lusso.

lunedì 22 giugno 2015

Ancora qui

“Uccelli che fanno casino”: questo era quello che scrivevo in una mail inviata a un amico nell’agosto 2008, dove gli raccontavo le mie prime impressioni della mia prima volta in Africa. Erano le ore del tramonto, il sole scendeva enorme dietro le palme dell’aeroporto sul mare, aspettavo attendenti che non sarebbero arrivati lasciandomi in balia di due furboni, in un’epoca in cui non ero ancora allenato a viaggiare in un certo modo. Col calare del sole sentivo la notte che calava su di me: stordito da tanta novità, spaesato, ma anche osservato, perché “people are strange”, la gente è strana, quando sei tu lo straniero, dicevano i Doors, e un bianco in Africa è decisamente uno straniero.

Oggi sono di nuovo qui. Non avrei pensato che sarebbe potuto succedere: sono di nuovo in Gabon, dove la mia attuale vita professionale è iniziata, ormai 7 anni fa. Oggi sono tranquillo, forse grazie al volo che arriva a destinazione più presto, a metà pomeriggio: l’uomo, pur essendosi evoluto tecnologicamente, dentro di sé conserva ancora paure e istinti ancestrali, cosicché anche da evoluto sente è la luce del giorno la sua prima protezione, perché arrivare in luoghi ignoti la sera tardi non è mai piacevole, pensi di non avere le stesse opportunità e lo stesso tempo che avresti giungendo di mattina, e magari anche la stessa fortuna. Ma stavolta è ancora pomeriggio, un bel pomeriggio luminoso, le persone non mi sembrano affatto ostili, non lo è sicuramente Vanessa, che è venuta ad accogliermi per potermi imbarcare per Port Gentil, e a cui affido, dopo un po’ di tempo in piacevole compagnia in attesa del volo, la promozione di "Hic Sunt Gabones", la mia mostra fotografica di foto fatte proprio qui in Gabon 6 anni fa.

Vanessa sponsorizza la mostra "Hic sunt Gabones"

Durante il check in per Port Gentil ritrovo gli stessi identici schermi che ricordo nella sala delle partenze anni fa, li riconosco dagli stessi difetti di immagine. Come faccio a ricordare questo particolare? Non ci ho mai più pensato da allora, dove stava nascosto nella mia testa questo insignificante dettaglio? Ma allora davvero il nostro cervello registra la totalità di quello che vediamo e proviamo, salvo tenerlo da qualche parte al sicuro prima di farcelo riaffiorare nella mente? E quindi, malattie come l’Alzheimer sono la perdita dei ricordi o la perdita della capacità di riprendere i propri ricordi? Pure le immagini sono le stesse identiche 6-7 foto che sfilavano 6 anni fa.

A volte le soddisfazioni arrivano tardi, in lunga differita, piatti gustati freddi come certe vendette. Nel primo viaggio del secondo Gabon (ad aprile) ho finalmente viaggiato vicino al finestrino, potendo guardare tutta l’Africa, il deserto soprattutto. Esclusi i voli notturni, durante tutti i voli diurni avevo sempre qualcuno tra me e lo spettacolo, ricordo una passeggera che è stata capace di chiudere l’oblò prima ancora di decollare e di tenerlo chiuso fino a destinazione, eppure è gente che il proprio posto lo sceglie, cosa lo scegli a fare se poi non ne approfitti? Per avere una parete di fianco? Perché allora non viaggi nella toilette?
I viali bianchi di Parigi col il ricordo di una vacanza romantica con Greta, la Francia ignota del Massiccio Centrale, i Pirenei e Barcellona, i rilievi delle Baleari, l’Algeria coi monti dell’atlante verdi di cedri e poi azzurrini del paesaggio di sabkha. E finalmente eccolo il deserto! Che sbalordimento al vedere una infinita distesa giallastra di sabbie e di sassi del reg algerino macchiata da rocce brune e nerastre, e poi gli altipiani tagliati da canyon profondi, praticamente una carta geologica a grandezza naturale, coi profili nudi di colline che seguono le pieghe delle rocce come costole di uno scheletro, resti mortali di una vita che esisteva intensa fino ai tempi delle glaciazioni. Tra i monti e le vallate dell’Ahaggar riesco a indovinare boschi, praterie di greggi, torrenti pescosi, nelle distese di sabbie e ghiaie riesco a immaginare savane brulicanti di elefanti, ovunque penso agli uomini che ci hanno lasciato graffiti millenari sulle rocce con le immagini di come era bello e florido il loro mondo.
Infine il Sahel, ovvero le steppe dell’Africa subsahariana, la savana, e poi l'umidità delle prime foreste equatoriali offusca tutto il suolo con la sua cappa inconsistente e impenetrabile, il sole contro riflette i suoi raggi su questa foschia e cancella il suolo alla vista, nessuna possibilità di vedere steppe e le prime foreste equatoriali, solo il monte Camerun buca nuvole e foschia, nitido contro le nuvole bianco abbaglianti delle alte quote.
L’ultima ora del volo è un ricordo potente. La sensazione di essere quasi a destinazione, le nuvole a chiazze sul mare sotto e le loro ombre ancora verticali, quella sensazione di tepore e stordimento che provoca la riattivazione del proprio corpo dopo un viaggio lungo e sonnacchioso, la percezione del clima già caldo col sole del pomeriggio: tutto come quando ero arrivato in Guadalupa, quello che ormai è un pezzo della mia vita di 10 anni fa.


Infine, a Port Gentil, si conclude questo viaggio, che è anche un viaggio nella memoria di 6-7 anni fa. Il giro per Port Gentil mi mostra la città come la conoscevo: le strade poco luminose, le botteghe aperte la notte con fredde luci al neon, la gente che passeggia a bordo strada e sui marciapiedi, l’umanità che conclude la giornata di lavoro. C’è il ricordo di una serata in compagnia di Andrea, che era alloggiato nella stessa guest house in cui mi trovo io ora, e il mitico Copacabana che serve cibo fino a tardi con le sue patatine fritte più buone del mondo (non stasera però).


Parigi, l'aeroporto più dispersivo del mondo

Parigi

Campagna francese


Il Massiccio Centrale

Costa Brava, Barcellona sullo sfondo

Cala Sant Vincenç, Baleari

Maiorca

L'Atlante algerino

Deserto algerino, pieghe come su una carta geologica

Deserto algerino
Quel che resta di un antico fiume

Rilievi dell'Ahaggar

Il monte Camerun

sabato 14 febbraio 2015

Vendetta sul Ciad

E’ recente la notizia che Boko Haram ha attaccato un villaggio sulle sponde ciadiane del lago Ciad, uccidendo alcune persone e incendiando il villaggio. Hanno attraversato il lago di notte, si sono voluti vendicare della partecipazione del Ciad all’intervento militare insieme al Camerun di qualche settimana fa, in cui molti jihadisti sono stati uccisi in un’operazione a Gamboru, cittadina nigeriana appena oltre il confine.
Quello del Ciad è un esercito molto preparato rispetto a quelli degli altri Paesi della regione. In Nigeria l’opposizione a Boko Haram, sia politica che militare, è stata scarsissima, lasciando troppo facilmente il nord est del Paese in balia di questa organizzazione, tanto che di recente il presidente nigeriano in visita elettorale da queste parti è stato accolto a sassate. Il Camerun, che con una striscia di terra larga 30 km nel punto più stretto si insinua tra Nigeria e Ciad fino al lago, era riuscito a scoraggiare dal preparare incursioni, fino al giorno dell’attacco alla città di Fotokol poi respinto dall’esercito alcune settimane fa. Se ancora ce ne fosse bisogno, la Francia mantiene la sua presenza nella ex colonia con una guarnigione di un migliaio di soldati tra esercito e Legione Straniera, presumibilmente pronta a intervenire su richiesta del Presidente del Ciad; i soldati li avevo visti in un’occasione a uno dei ristoranti gestiti da francesi di N’djamena.

Tutto questo avviene nella regione a nord di N’djamena, le steppe polverose della zona del lago Ciad e dei fiumi che riempiono questa stanca gigantesca oasi prima del grande deserto. Dai cieli di N’djamena non si riesce a vedere il lago, troppo lontano per questa foschia nell’aria, vuoi per l’umidità nella stagione delle piogge, vuoi per la polvere sospesa e non spazzata dai venti nella stagione secca: non sono mai riuscito a vedere il lago dai finestrini degli aerei in atterraggio e decollo dalla pista della capitale.

mercoledì 26 novembre 2014

Il sole tramonta sul Camerun


Camaleonte: mimetismo non riuscito

Il blu cobalto non è propriamente un colore da mimetismo per i camaleonti. Mentre sono a pranzo a bordo fiume vedo un camaleonte che attraversa il cortile, lo vado a vedere da vicino, mi vede e si spaventa, scappa quindi verso il bordo della piscina. Purtroppo per lui, verdastro come è, l’acqua è fuori dalla portata del suo mimetismo, impossibile assumere i colori del cielo. Per un attimo vedo che si sente spacciato: mi guarda con uno dei suoi due occhi strabici mentre l’altro scruta il cortile cercando la salvezza. Guarda l’acqua, per un attimo prova a sporgersi dal bordo, poi identifica la vegetazione a 5 metri di distanza e decide che quella è la via più sicura, e allora si dirige verso le piante. Ovviamente non di corsa, siccome la sua lentezza è nota a tutti, perciò prova a sgusciare via alla sua maniera, sempre in bilico sul bordo, infastidito dalla mia macchina foto. Incontra le scalette della piscina: potrebbero essere un buon punto di salvezza, se non fosse che le sue zampe bidattili (sembra che abbia le moffole) non riescono ad agguantare o fare presa sul tubo troppo grande ma soprattutto troppo scivoloso per lui. Si rassegna e decide di tentare la sorte scappando verso le piante, coi suoi passi lenti e molleggiati. Una volta al sicuro continua a voltarsi a guardarmi, o meglio gira un occhio a controllare che io stia a distanza di sicurezza, sebbene io continui a infastidirlo ancora un po’ per qualche bel primissimo piano. Finalmente, coi colori delle piante tra cui si è rifugiato, lo vedo sparire.



Quasi sparito...


Orticello sullo Chari
Sono sulla sponda del fiume Chari (Sciarì), pranzo al ristorante di questo albergo su consiglio di qualcuno che ha avuto pietà di me e della mia voglia di vedere qualcosa in questa città.
Subito guardo la sponda opposta: quello è già il Camerun! Lo Chari fa da confine tra Ciad e Camerun, io sono in Ciad, superata questa enorme massa d’acqua che scorre imponente c’è la sottile striscia della punta nord del Camerun, e 40-50 km più in là ancora c’è già la Nigeria.
Guardo di nuovo le acque che scorrono verso la mia destra: vanno verso nord, portano questa immensa quantità di acqua al lago Ciad, quello che ne resta per lo meno, l’ultimo baluardo d’acqua prima delle sabbie del Sahara. Le sponde sono verdeggianti di un paesaggio che mi sembra savana, vedo canneti e giunchi a protezione delle sponde, in cui vedo lavorare alcune persone, e degli alberi. Sulla sponda ciadiana, proprio sotto il cortile e oltre il filo spinato, alcune persone si occupano di orticelli che hanno modellato nel fango delle sponde, entrano nelle acque del fiume per riempire gli annaffiatoi con cui annegano le prime piantine che spuntano. Nel fiume ogni tanto passano piroghe di legno, due pescatori gettano le reti mentre si fanno portare via dalla corrente.
Pesca nello Chari

Gli influssi benefici di tutta quest’acqua con questo clima non devono durare molto allontanandosi dal fiume, visto dall’alto lo Chari deve sembrare un nastro verde nelle steppe dell’Africa centrale. Come il grande Niger, che sembra voler puntare deciso il deserto ma poi decide di cambiare idea e di tornare verso il golfo di Guinea, come il gigantesco Nilo, che mantiene tutto il suo coraggio affrontando le terribili sabbie, anche lo Chari fa la sua parte portando una inestimabile strisciata che insinua la vita entro le terre più inospitali del nord.

Zona di confine


Irresistibile questo pomeriggio all’aperto sulle sponde di un grande fiume africano. Aggiorno il taccuino di viaggio, leggo qualche pagina del libro che mi sono portato dietro, soprattutto mi assaporo la brezza tra le foglie degli alberi e la luce calda del pomeriggio che svanisce. Il sole scende veloce e in caduta verticale sul fiume, indora l’aria e l’acqua, infine si spegne al di là del Camerun.

Tramonto sul Camerun