mercoledì 26 novembre 2014

Il sole tramonta sul Camerun


Camaleonte: mimetismo non riuscito

Il blu cobalto non è propriamente un colore da mimetismo per i camaleonti. Mentre sono a pranzo a bordo fiume vedo un camaleonte che attraversa il cortile, lo vado a vedere da vicino, mi vede e si spaventa, scappa quindi verso il bordo della piscina. Purtroppo per lui, verdastro come è, l’acqua è fuori dalla portata del suo mimetismo, impossibile assumere i colori del cielo. Per un attimo vedo che si sente spacciato: mi guarda con uno dei suoi due occhi strabici mentre l’altro scruta il cortile cercando la salvezza. Guarda l’acqua, per un attimo prova a sporgersi dal bordo, poi identifica la vegetazione a 5 metri di distanza e decide che quella è la via più sicura, e allora si dirige verso le piante. Ovviamente non di corsa, siccome la sua lentezza è nota a tutti, perciò prova a sgusciare via alla sua maniera, sempre in bilico sul bordo, infastidito dalla mia macchina foto. Incontra le scalette della piscina: potrebbero essere un buon punto di salvezza, se non fosse che le sue zampe bidattili (sembra che abbia le moffole) non riescono ad agguantare o fare presa sul tubo troppo grande ma soprattutto troppo scivoloso per lui. Si rassegna e decide di tentare la sorte scappando verso le piante, coi suoi passi lenti e molleggiati. Una volta al sicuro continua a voltarsi a guardarmi, o meglio gira un occhio a controllare che io stia a distanza di sicurezza, sebbene io continui a infastidirlo ancora un po’ per qualche bel primissimo piano. Finalmente, coi colori delle piante tra cui si è rifugiato, lo vedo sparire.



Quasi sparito...


Orticello sullo Chari
Sono sulla sponda del fiume Chari (Sciarì), pranzo al ristorante di questo albergo su consiglio di qualcuno che ha avuto pietà di me e della mia voglia di vedere qualcosa in questa città.
Subito guardo la sponda opposta: quello è già il Camerun! Lo Chari fa da confine tra Ciad e Camerun, io sono in Ciad, superata questa enorme massa d’acqua che scorre imponente c’è la sottile striscia della punta nord del Camerun, e 40-50 km più in là ancora c’è già la Nigeria.
Guardo di nuovo le acque che scorrono verso la mia destra: vanno verso nord, portano questa immensa quantità di acqua al lago Ciad, quello che ne resta per lo meno, l’ultimo baluardo d’acqua prima delle sabbie del Sahara. Le sponde sono verdeggianti di un paesaggio che mi sembra savana, vedo canneti e giunchi a protezione delle sponde, in cui vedo lavorare alcune persone, e degli alberi. Sulla sponda ciadiana, proprio sotto il cortile e oltre il filo spinato, alcune persone si occupano di orticelli che hanno modellato nel fango delle sponde, entrano nelle acque del fiume per riempire gli annaffiatoi con cui annegano le prime piantine che spuntano. Nel fiume ogni tanto passano piroghe di legno, due pescatori gettano le reti mentre si fanno portare via dalla corrente.
Pesca nello Chari

Gli influssi benefici di tutta quest’acqua con questo clima non devono durare molto allontanandosi dal fiume, visto dall’alto lo Chari deve sembrare un nastro verde nelle steppe dell’Africa centrale. Come il grande Niger, che sembra voler puntare deciso il deserto ma poi decide di cambiare idea e di tornare verso il golfo di Guinea, come il gigantesco Nilo, che mantiene tutto il suo coraggio affrontando le terribili sabbie, anche lo Chari fa la sua parte portando una inestimabile strisciata che insinua la vita entro le terre più inospitali del nord.

Zona di confine


Irresistibile questo pomeriggio all’aperto sulle sponde di un grande fiume africano. Aggiorno il taccuino di viaggio, leggo qualche pagina del libro che mi sono portato dietro, soprattutto mi assaporo la brezza tra le foglie degli alberi e la luce calda del pomeriggio che svanisce. Il sole scende veloce e in caduta verticale sul fiume, indora l’aria e l’acqua, infine si spegne al di là del Camerun.

Tramonto sul Camerun

martedì 25 novembre 2014

Per le strade di N'djamena

Passeggio per le strade ocracee, in un traffico prevalentemente motociclistico, e osservo l’umanità che si trova per le strade della capitale. Sono scene che provo a confrontare con quelle che vedevo nel prospero Gabon, notando che questa parte di Africa è sia cristiana che musulmana, motivo per cui è frequente vedere uomini e donne vestite alla maniera araba. Ecco un po’ di immagini degli abitanti di N’djamena.



Abiti saheliani, quelle tuniche bianco brillante e ricamate che paiono così fresche e comode, abbinate alle immancabili ciabatte o sandali dalla punta infinita; è facile che un berretto ugualmente bianco brillante copra le loro teste di ragazzi sorprendentemente alti, quando non è una sorta di turbante.
A bordo strada, ad approfittare dell’ombra degli alberi o dei pali della luce, capannelli di persone: chi si riposa, chi conversa, gente che vende qualcosa, alcuni si arrabattano come possono. Spesso sono donne vestite in abiti colorati, stanno su grossi tappeti a sgusciare noccioline che vendono in bottiglie di plastica, una ragazzina con la pelle del viso tirata da un’ustione prova ad offrirmene una manciata tra quelle normali e quelle salate.
Agli incroci stazionano bambini intunicati o in pantaloni e camicia che chiedono l’elemosina con scodelle di metallo lucido, probabilmente anche le loro gamelle. Uno di loro mi chiede cibo, ho le noccioline che mi ha dato la ragazzina, gliele offro, non le vuole…
E’ frequente vedere gente, non solo donne, che porta il proprio carico in equilibrio sulla testa; tante volte mi chiedo se non sarebbe più comodo anche per noi, anziché avere le mani occupate da sacchetti e buste della spesa.
Qualcuno vestito da tuareg bianco vende un tappeto, sempre lo stesso da giorni, allo stesso incrocio. Non mancano gli sfaccendati, abbandonati sulle panchine o su enormi tappeti stesi sul marciapiede; a volte sono ragazzi giovani, ne ho visto uno sdraiato sul proprio tappeto sul marciapiede col volto illuminato dallo schermo del suo palmare.
Galline razzolano fuori dai cortili delle case per scacciare piccioni troppo invadenti.
Alla stazione di benzina del quartiere staziona una fila di motociclisti, sono tanti i motociclisti in questa città: probabilmente sono dei mototaxi, in effetti non ho visto nessun autobus in questi giorni, e le moto circolano sempre con motociclista e passeggero. Ad esempio c’è un angolo di un incrocio in cui in ogni momento ne vedo parecchi di motociclisti, insieme a una marea di amici o conoscenti che passano il tempo appollaiati sui sellini o su scatoloni. Viene da chiedersi non tanto come si muove la gente, se mancano i trasporti, ma se la gente ha effettivamente bisogno di muoversi o se piuttosto non sono tutti che lavorano vicino alle loro abitazioni o addirittura se la bottega non è anche una delle stanze del posto in cui abitano.

E’ il fine settimana, che può essere lungo e placido in un paese che celebra sia il riposo musulmano del venerdì che il riposo cristiano della domenica. Nell’incrocio vicino agli alloggiamenti, un incrocio di strade secondarie in terra, su un enorme tappeto rossiccio stanno tranquilli due ragazzi, uno vestito di tunica, l’altro in pantaloni e camicia. Hanno l’immancabile tè con loro, se lo sono portato da casa in un thermos, siccome loro non hanno il fornelletto per scaldare la teiera che ho visto su altri tappeti.







lunedì 24 novembre 2014

Prima di tutto, trovare cartine e informazioni

Provo a cercare qualche mappa del Ciad, chiedendo in giro se si trovano delle cartine, un po’ per interesse personale, un po’ per conoscere i ciadiani e parlare del loro Paese, siccome so che fa sempre piacere riscontrare interesse nel proprio Paese da parte di uno straniero. Una gran fatica, tutto quello che trovo sono delle cartine approssimative stampate su volantini per scopi professionali oppure delle carte da parete semplificate e aggiornate al 1964.
Mi torna in mente che la cultura delle mappe e delle cartine non esiste fuori dall’Europa, dove tutte le indicazioni sono approssimative. Ricordo la rarità, e a pagamento, di una carta ben fatta in un parco nazionale in Brasile. Ricordo le indicazioni tracciate a caso quanto basta per far arrivare a destinazione i visitatori o i clienti. Ricordo anche l’inesistenza completa a Rio de Janeiro, almeno fino al 2013, cioè un anno prima dei mondiali, di mappe dei percorsi delle linee dei pullman. E mi viene in mente anche di non avere mai visto mappe in mano a un sudamericano o un africano, che si passano le informazioni indicando i quartieri e le vie: le mappe sono per gli europei o per i nordamericani, il fatto di consultarle per strada li identifica subito come turisti o come possibili prede di scippi.
Ma senza mappe sento che mi manca qualcosa, anche se devo anche ammettere che quella delle cartine è una mia mania, non tanto passione, siccome non posseggo nessuna mappa di valore, una mania che mi porto dietro in ogni gita in montagna, in ogni paese in cui vado, in ogni città in cui mi trovo. Del resto le cartine non solo so leggerle per motivi universitari, lavorativi, alpinistici, ma le so anche disegnare.
Così mi trovo a N’djamena e non trovo piantine della città e carte del Ciad, mi manca decisamente qualcosa. Google Maps  o Google Earth non sono la stessa cosa ovviamente, pur essendo una meraviglia. Voglio una cartina cartacea!

Trovo due cartine alla parete in uno degli hotel della città.
Una raffigura N’djamena, anche se solo una porzione. La parte della città mostrata sta spalmata sulla sponda orientale dello Chari, dirimpetto al Camerun.
Un’altra è una mappa del Ciad, vedo raffigurate le tre terribili fasce geografiche del Paese che lo smembrano in tre entità che lasciano poca possibilità di sviluppo: N’djamena sta in quella in quella fascia di Sahel che divide le grandi sabbie del Sahara dal buco verde della foresta equatoriale.
Guardo il lago Ciad, disegnato con la sua estensione di un tempo, altro che il misero 10% che ne rimane oggi… Seguo i percorsi dei fiumi che provengono dalla foresta equatoriale e dalla savana e riversano le loro acque ricche di materia organica nella pozza del deserto, attraversando le steppe saheliane. Cosa doveva essere questa porzione d’Africa un tempo, 15-20'000 anni fa, quando il lago Ciad era un gigantesco lago che riceveva acque dalle foreste meridionali e dalle montagne settentrionali? Cosa doveva essere la parte nord, quegli spettacolari massicci del Tibesti oggi aridi fatti di pinnacoli e di monti scabrosi come carta vetrata e un tempo montagne verdeggianti? Cosa doveva essere la parte pianeggiante che oggi è solo una distesa di sabbia e vento in cui un tempo scorrevano fiumi carichi di acqua dell’altopiano dell’Ennedi, fiumi che tento di indovinare sulla cartina seguendo l’allineamento delle oasi?
I monti del Tibesti, definite le più belle montagne del deserto, e l’altopiano dell’Ennedi… luoghi mitici per i viaggiatori dei decenni passati, quando anche viaggiare in Africa era non facile ma per lo meno sicuro. Ce lo diceva in Provenza una còrsa gagliarda che raccontava come a 18 anni nei primi anni ’70 se ne era andata in Algeria nel deserto…

Intanto, mi sa che devo accontentarmi di Google Maps.

domenica 23 novembre 2014

Benvenuti in Ciad

N'djamena, vie giallo ocra

Giallo ocra è il colore predominante a N’djamena, o per lo meno in questo periodo di stagione secca. Tutte le vie e le strade sembrano polverose, una patina riveste ogni luogo. La sabbia terrosa delle vie secondarie si insinua nelle vie principali, sbiadisce i muri pitturati alla maniera tropicale, scolora l’asfalto già sbiadito dal sole, ancora caldissimo pur essendo ormai ben oltre l’equatore. Anche gli alberi subiscono questa sporcatura, sbiaditi dalla polvere di un terreno non più bagnato dalle piogge torrenziali della stagione delle piogge che pare essersi conclusa qualche settimana fa.

Societé Tchadienne des Eaux
E’ media mattina, sono le 8, è già tardi per l’Africa, dove il giorno si accende in pochi minuti intorno alle 6 e l’umanità gli sta dietro per iniziare la giornata senza arroventarsi. Sono sulla terrazza degli alloggiamenti e il terzo piano in questa città sembra essere abbastanza alto da permettermi di apprezzare il panorama su N’djamena, dove sono prevalentemente gli alberi a disegnare la skyline, eccezion fatta per pochi elementi artificiali che si contano sulle dita di una mano: un palazzone in cemento, un enorme monumento che potrebbe essere la facciata monumentale della cattedrale, i minareti della moschea, e una manciata di “castelli d’acqua”, tali si chiamano in lingua francese gli imbuti delle torri dell’acqua.


Due delle molte torri dell'acqua

La secchezza di questi giorni mi fa chiedere da dove arrivi tanta acqua da poter riempire tali imbuti, ma soprattutto mi fa chiedere quanto ce ne sia bisogno quando questa stagione perdurerà nei prossimi mesi. Sarà stata la pioggia torrenziale della stagione delle piogge appena conclusa? Oppure viene dal fiume? C’è un fiume a N’djamena, lo Chari (Sciarì), la città sorge sulla sua sponda orientale mentre al di là se ne sta il Camerun. Lo Chari scorre da sudest, proviene dalla repubblica Centrafricana, taglia le praterie del Sahel e riempie il lago Ciad poco più a nord di dove stiamo adesso, il mitico lago nel bel mezzo del deserto ormai in via di prosciugamento. Paesi tranquilli quelli che si affacciano sulle sue sponde in ritiro, Ciad, Niger e Camerun, decisamente meno la Nigeria di Boko Haram, che opera proprio nella regione del lago, dove i militari camerunesi stanno facendo efficace opera di contenimento. Il fiume l’avevo intravisto dall’aereo, sorvolando il buio totale dell’Africa saheliana sotto il cielo gigantesco di un Orione sdraiato a queste latitudini, gli unici indizi erano stati i riflessi di alcuni edifici illuminati sulla sponda ciadiana che ero riuscito a intravedere.


La cattedrale in lontananza?

Una moschea


Che posto è questo? Dove sorge N’djamena? Come è il mondo in questi dintorni? Chi lo abita?
La mia attività per i prossimi giorni.

martedì 26 agosto 2014

Mattoni rossi grassi nelle terre d'acqua


Morimondo, i mattoni
grassi rossi
I bei mattoni grassi rossi smagriti con la sabbia di fiume sono, insieme ai ciottoli di fiume ove presenti, la pietra della pianura, ogni costruzione ne è fatta, inclusa l’abbazia di Morimondo, in bilico su un grande terrazzo fluviale da cui si domina la piana del Ticino. Dalla terrazza del ristorante proprio davanti all’abbazia vedo un vorticare di ciclisti e turisti: è una domenica di giugno già calda, centinaia di milanesi gitanti pedalano sulle ciclabili lungo i navigli e i canali, conversano, ciarlano, li sento discutere di affari o di gossip, davanti al classico risotto alla milanese o a un ossobuco insieme ad un boccale di buona Menabrea biellese.

Vie d'acqua a Morimondo
E’ arrivando abbastanza casualmente qui a Morimondo (dove “moriva il mondo” per i monaci cistercensi), suggeritomi dal titolo di un libro di Paolo Rumiz, che decido di partire alla scoperta di questi luoghi: un mondo di pioppi, di salici sulle sponde e nei cortili curati e fioriti, da qui fino al Ticino, a Pavia, al Po, un mondo di ciclabili o strade che costeggiano navigli, canali, prese d’acqua, mulini, cascine, abbazie, opifici a forza d’acqua, e ovunque sempre i mattoni grassi rossi. Terre d’acqua, acque di fiume e acque di canali. Acqua, come quella del Po che proprio Rumiz decide di seguire scendendo il grande fiume in barca, da dentro: sento lo stimolo a fare le mie scoperte di queste acque, da fuori.





Visualizzazione ingrandita della mappa

Decido di incontrare il Ticino, ed è una sorpresa: la strada scende da Bereguardo, chiusa in un bosco da zanzare casca ripetutamente su terrazzi fluviali via via più bassi, perdendo ogni volta svariati metri a più riprese tanto che mi accorgo di quanto sia incassato il Ticino rispetto alla pianura. Un piccolo rio morto di una delle tante lanche segno di meandri abbandonati, ecco infine “la spiaggia”: il Ticino è qui, solo in apparenza placido (vedo i mulinelli che ogni tanto risultano fatali ai nuotatori, infatti sull’altra sponda si celebra l’eroe che è morto per aver cercato di salvare dai mulinelli dei bagnati che non si erano resi conto del pericolo). Nessun ponte, ma una passerella su barche, parte galleggianti sul fiume, parte spiaggiate sulla ghiaia del fiume in magra. Un ponte di barche, quante imprese del passato mi ricorda? Il ponte sull’Ellesponto di Serse? Il ponte di Lucio Cecilio Metello sullo stretto di Messina? Il ponte di Annibale sul Rodano?

Ponte di barche sul Ticino di Bereguardo


Prendo le stradine, quelle lontane dalle statali, quelle che si infilano nei boschi o che servono appena ai trattori, quelle magari con l’asfalto consumato e le erbacce tra le crepe. Le stradine ti fanno scoprire il paesaggio piccolo, quello a misura d’uomo, e con un po’ di fortuna spesso ti svelano anche le piccole storie di questi uomini, che poi magari in alcuni casi si legano alla Storia più grande. E spesso le stradine nascondo piccoli gioielli. Come il mulino ad acqua appena fuori dal borgo di Zelata: una grande ruota ormai ferma sul canale di acqua ancora corrente tra erbacce e alghe di fiume, grandi attrezzi ancora di legno, tutt’intorno alberi e cespugli selvaggi che nascondono il canale; che abbandono… e pensare che ricordo di avere visto che nei paesi arabi la manutenzione di queste grandi ruote, le norie, è talmente importante che esistono uomini che lo fanno di mestiere spostandosi di villaggio in villaggio. E poi Zelata stessa, che in un lunedì mattina afoso estivo sembra la Spagna all’ora della siesta, quello stradone contornato da ricche cascine a corte interna percorso da rare biciclette, la chiesetta di mattoni rossi grassi e le statue in terracotta, e l’immancabile piacevole bed & breakfast sulle ormai popolari strade del gusto e della lentezza.
Altre stradine mi portano tra i campi a incrociare una presa d’acqua, appena sotto il borgo di Gropello Cairoli, a bordo della provinciale deserta. Nascosto tra i boschi, un edificio è costruito sopra la presa d’acqua; il luogo ameno comunica una grande quiete, ma l’erba è troppo alta e fitta per i miei calzoncini corti e non c’è modo di riesce a scendere al piano inferiore; ragnatele vecchie e piene di polvere che sembrano calzini appesi alle finestre quasi impediscono di guardare l’interno buio tra i vetri rotti.
Stradine tra i campi mi portano a Cascina Palazzo, agglomerato di cascine con architettura elegante e affiancate dai resti di un edificio (fabbrica, impianto di cava?) di cui rimane solo più una sottilissima parete alta 20 metri, pare sostenuta dagli alberi e tenuta ancora integra dalle edere. C’è una palina, passa un pullman da qui, provo a leggere gli orari: appena due corse al giorno.

Percorro le strade dei paesini che lambiscono la sponda nord del Po, seppur il grande fiume appaia distante: le strade si tengono sempre alla larga dai grandi fiumi, li vedi solo dai ponti. Paesini di pianura come Zinasco, Sommo, Cava Manara, che nascondono a sud la sorpresa di balconate e terrazzi panoramici sulle sponde del Po, rotonde sul mare di pioppi. Guardando una cartina non stradale ma da foto satellitare si spiega tutto: sono i grandi terrazzi fluviali modellati da antichi meandri del Po, ampie anse scavate nella pianura e abbandonate da secoli, ma ancora perfettamente riconoscibili dalla geometria dei campi e dei pioppeti. Ed è proprio sul filo di una cresta ritagliata tra due enormi antichi meandri che sorge la striscia di case del borgo di Sommo.

Pioppi dappertutto, ad abbellire i luoghi o fornire legname, presso le sponde dei fiumi e dei meandri abbandonati e lungo i navigli e canali. Nel mio primo viaggio in queste terre d’acque è primavera, le giornate lunghe e il clima caldo hanno già riportato in vita i pioppi, che ora caricano l’aria dei loro pappi: batuffoli ovunque, raccolti sulle strade come grandine, impigliati nelle foglie e nelle piante come rugiada gelata o intasando le ragnatele, ma soprattutto sospesi nell’aria, quasi immobili, come elementi sospesi in un umore vitreo quasi solido, gelatinoso.
La CeLesta corre in bilico sulla strada d’argine sinistro del Po presso Alluvioni Cambiò e perfora l’aria gelatinosa di pappi. Da un lato la pianura coltivata e protetta dalla furia delle alluvioni, dall’altro una distesa di campi sacrificabili alle alluvioni ma ancora lontana dal fiume.

Da quassù, su questo terrapieno, mi rendo conto che le strade d’argine e i ponti sono i luoghi più rilevati che si possano trovare in pianura, per questo è solo da tali luoghi che si riesce a vedere oltre un palmo dal naso, oltre le prime macchie di alberi e i campanili più vicini, per vedere cosa c’è oltre la pianura, cosa la circonda. C’è l’Appennino a sinistra, morbido eppure alto, i rilievi vicini dell’Oltrepò; i blandi rilievi del Monferrato davanti; a destra c’è la parete frastagliata delle Alpi. Provo a immaginare come dovesse essere in passato il paesaggio visto dalla pianura, quando era un ambiente spesso malsano acquitrinoso, boschi fitti, campi non estesi come oggi, era impossibile rendersi conto di cosa ci fosse intorno; allora, forse era solo dalle sponde dei fiumi che si riusciva a vedere oltre, lontano, guardando oltre la sponda opposta, o infondo al braccio di fiume. Così avevo notato quando, mentre con Andrea giocavamo a setacciare i sedimenti dell’Elvo in cerca di pagliuzze d’oro, in fondo al fiume avevo la chiara visuale delle montagne. Non mi sorprende quindi che i grandi esploratori continentali, Lewis e Clarke in nordamerica, la spedizione Langsdorff in Brasile, seguissero i fiumi: non era solo comodità di spostamento, ma anche possibilità di avere un orizzonte più vasto rispetto boschi sulle sponde.

I ponti, dunque. Li voglio percorrere tutti, quelli sul Po da Pavia a Valenza e anche quelli sul Ticino.
Splendidi i ponti della Becca e della Gerola: gallerie di travi d’acciaio, strada in pavé di porfido, una vista aperta sul fiume. Ponti vecchio stile con arcate ravvicinate e via stretta adatta solo a far incrociare due mezzi piccoli, e siccome l’accesso ai ponti è regolato da sagome limite sono esclusi tutti i mezzi più grossi di un furgone, probabilmente anche i SUV (curiosa l’evoluzione dei mezzi di trasporto privato, siamo passati dalle 500 ai SUV, macchine che oggi potrebbero contenere le vecchie 500 nel loro cofano – viene da chiedersi che magie facessero i meridionali che risalivano 1500 km di penisola con famiglie e bagagli al seguito nelle loro leggendarie migrazioni e in un’epoca senza autostrade). Grandi ponti monumentali, di un’epoca in cui unire due sponde non era un semplice scavalco, ma significava spesso unire due civiltà o per lo meno due aree geografiche, come il grande ponte sul Danubio, tra Giurgiu in Romania e Ruse in Bulgaria: anche lì la strada di accesso pare una rampa, perché per superare i grandi fiumi non si può arrivare all’improvviso, bisogna arrivarci pronti e preparati all’incontro, in rettilineo.

Ponte della Gerola
Il Po bruno
Ponte della Gerola, galleria d'acciaio
Ogni ponte monumentale ha intorno almeno un’osteria e un imbarco sul fiume, oltre a bagnanti spesso romeni, quelli che non hanno nessuna intenzione di fare gli schizzinosi e rinunciare all’acqua anche lontano dal mare. Al ponte della Becca poi arrivi sorvolando i due grandi fiumi del nordovest: il Po bruno e limaccioso e quieto e poi, dopo l’ultimo cuneo di sabbia, il Ticino verde e all’apparenza più brioso; e sulla sponda Ticinese è un fiorire di ristorantini, piscine, discobar, e anche un piccolo porto con darsena.
E’ ormai tardi quando percorro il ponte di Valenza, si avvicina l’ora di cena, vedo la ferrovia che borda la strada e che supera il fiume a braccetto della statale, e l’osteria sulla spalla della sponda sud. L’osteria oggi è chiusa, è lunedì; penso a Paolo Rumiz che arriva anche lui un lunedì, ma per lui che arriva dalle acque il padrone apre di buon grado la cucina, per me invece non c’è nessuno, riprendo la strada, supero le colonne monumentali in mattoni grassi rossi e mi porto ancora una volta oltre il grande fiume.