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Morimondo, i mattoni
grassi rossi |
I
bei mattoni grassi rossi smagriti con la sabbia di fiume sono, insieme ai
ciottoli di fiume ove presenti, la pietra della pianura, ogni costruzione ne è
fatta, inclusa l’abbazia di Morimondo, in bilico su un grande terrazzo fluviale
da cui si domina la piana del Ticino. Dalla terrazza del ristorante proprio
davanti all’abbazia vedo un vorticare di ciclisti e turisti: è una domenica di
giugno già calda, centinaia di milanesi gitanti pedalano sulle ciclabili lungo
i navigli e i canali, conversano, ciarlano, li sento discutere di affari o di
gossip, davanti al classico risotto alla milanese o a un ossobuco insieme ad un
boccale di buona Menabrea biellese.
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Vie d'acqua a Morimondo |
E’
arrivando abbastanza casualmente qui a Morimondo (dove “moriva il mondo” per i
monaci cistercensi), suggeritomi dal titolo di un libro di Paolo Rumiz, che
decido di partire alla scoperta di questi luoghi: un mondo di pioppi, di salici
sulle sponde e nei cortili curati e fioriti, da qui fino al Ticino, a Pavia, al
Po, un mondo di ciclabili o strade che costeggiano navigli, canali, prese
d’acqua, mulini, cascine, abbazie, opifici a forza d’acqua, e ovunque sempre i
mattoni grassi rossi. Terre d’acqua, acque di fiume e acque di canali. Acqua,
come quella del Po che proprio Rumiz decide di seguire scendendo il grande
fiume in barca, da dentro: sento lo stimolo a fare le mie scoperte di queste
acque, da fuori.
Visualizzazione ingrandita della mappa
Decido
di incontrare il Ticino, ed è una sorpresa: la strada scende da Bereguardo,
chiusa in un bosco da zanzare casca ripetutamente su terrazzi fluviali via via
più bassi, perdendo ogni volta svariati metri a più riprese tanto che mi
accorgo di quanto sia incassato il Ticino rispetto alla pianura. Un piccolo rio
morto di una delle tante lanche segno di meandri abbandonati, ecco infine “la
spiaggia”: il Ticino è qui, solo in apparenza placido (vedo i mulinelli che
ogni tanto risultano fatali ai nuotatori, infatti sull’altra sponda si celebra
l’eroe che è morto per aver cercato di salvare dai mulinelli dei bagnati che
non si erano resi conto del pericolo). Nessun ponte, ma una passerella su
barche, parte galleggianti sul fiume, parte spiaggiate sulla ghiaia del fiume
in magra. Un ponte di barche, quante imprese del passato mi ricorda? Il ponte sull’Ellesponto di Serse? Il ponte di Lucio Cecilio
Metello sullo stretto di Messina? Il ponte di Annibale sul Rodano?
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Ponte di barche sul Ticino di Bereguardo |
Prendo
le stradine, quelle lontane dalle statali, quelle che si infilano nei boschi o
che servono appena ai trattori, quelle magari con l’asfalto consumato e le
erbacce tra le crepe. Le stradine ti fanno scoprire il paesaggio piccolo,
quello a misura d’uomo, e con un po’ di fortuna spesso ti svelano anche le
piccole storie di questi uomini, che poi magari in alcuni casi si legano alla
Storia più grande. E spesso le stradine nascondo piccoli gioielli. Come il
mulino ad acqua appena fuori dal borgo di Zelata: una grande ruota ormai ferma
sul canale di acqua ancora corrente tra erbacce e alghe di fiume, grandi
attrezzi ancora di legno, tutt’intorno alberi e cespugli selvaggi che
nascondono il canale; che abbandono… e pensare che ricordo di avere visto che
nei paesi arabi la manutenzione di queste grandi ruote, le norie, è talmente
importante che esistono uomini che lo fanno di mestiere spostandosi di
villaggio in villaggio. E poi Zelata stessa, che in un lunedì mattina afoso
estivo sembra la Spagna
all’ora della siesta, quello stradone contornato da ricche cascine a corte
interna percorso da rare biciclette, la chiesetta di mattoni rossi grassi e le
statue in terracotta, e l’immancabile piacevole bed & breakfast sulle ormai
popolari strade del gusto e della lentezza.
Altre
stradine mi portano tra i campi a incrociare una presa d’acqua, appena sotto il
borgo di Gropello Cairoli, a bordo della provinciale deserta. Nascosto tra i boschi,
un edificio è costruito sopra la presa d’acqua; il luogo ameno comunica una
grande quiete, ma l’erba è troppo alta e fitta per i miei calzoncini corti e
non c’è modo di riesce a scendere al piano inferiore; ragnatele vecchie e piene
di polvere che sembrano calzini appesi alle finestre quasi impediscono di
guardare l’interno buio tra i vetri rotti.
Stradine
tra i campi mi portano a Cascina Palazzo, agglomerato di cascine con
architettura elegante e affiancate dai resti di un edificio (fabbrica, impianto
di cava?) di cui rimane solo più una sottilissima parete alta 20 metri, pare sostenuta
dagli alberi e tenuta ancora integra dalle edere. C’è una palina, passa un
pullman da qui, provo a leggere gli orari: appena due corse al giorno.
Percorro
le strade dei paesini che lambiscono la sponda nord del Po, seppur il grande
fiume appaia distante: le strade si tengono sempre alla larga dai grandi fiumi,
li vedi solo dai ponti. Paesini di pianura come Zinasco, Sommo, Cava Manara,
che nascondono a sud la sorpresa di balconate e terrazzi panoramici sulle
sponde del Po, rotonde sul mare di pioppi. Guardando una cartina non stradale
ma da foto satellitare si spiega tutto: sono i grandi terrazzi fluviali
modellati da antichi meandri del Po, ampie anse scavate nella pianura e
abbandonate da secoli, ma ancora perfettamente riconoscibili dalla geometria
dei campi e dei pioppeti. Ed è proprio sul filo di una cresta ritagliata tra
due enormi antichi meandri che sorge la striscia di case del borgo di Sommo.
Pioppi
dappertutto, ad abbellire i luoghi o fornire legname, presso le sponde dei
fiumi e dei meandri abbandonati e lungo i navigli e canali. Nel mio primo
viaggio in queste terre d’acque è primavera, le giornate lunghe e il clima
caldo hanno già riportato in vita i pioppi, che ora caricano l’aria dei loro
pappi: batuffoli ovunque, raccolti sulle strade come grandine, impigliati nelle
foglie e nelle piante come rugiada gelata o intasando le ragnatele, ma
soprattutto sospesi nell’aria, quasi immobili, come elementi sospesi in un
umore vitreo quasi solido, gelatinoso.
La CeLesta corre in bilico sulla strada d’argine sinistro del
Po presso Alluvioni Cambiò e perfora l’aria gelatinosa di pappi. Da un lato la
pianura coltivata e protetta dalla furia delle alluvioni, dall’altro una
distesa di campi sacrificabili alle alluvioni ma ancora lontana dal fiume.
Da
quassù, su questo terrapieno, mi rendo conto che le strade d’argine e i ponti
sono i luoghi più rilevati che si possano trovare in pianura, per questo è solo
da tali luoghi che si riesce a vedere oltre un palmo dal naso, oltre le prime
macchie di alberi e i campanili più vicini, per vedere cosa c’è oltre la
pianura, cosa la circonda. C’è l’Appennino a sinistra, morbido eppure alto, i
rilievi vicini dell’Oltrepò; i blandi rilievi del Monferrato davanti; a destra
c’è la parete frastagliata delle Alpi. Provo a immaginare come dovesse essere
in passato il paesaggio visto dalla pianura, quando era un ambiente spesso
malsano acquitrinoso, boschi fitti, campi non estesi come oggi, era impossibile
rendersi conto di cosa ci fosse intorno; allora, forse era solo dalle sponde
dei fiumi che si riusciva a vedere oltre, lontano, guardando oltre la sponda
opposta, o infondo al braccio di fiume. Così avevo notato quando, mentre con
Andrea giocavamo a setacciare i sedimenti dell’Elvo in cerca di pagliuzze
d’oro, in fondo al fiume avevo la chiara visuale delle montagne. Non mi
sorprende quindi che i grandi esploratori continentali, Lewis e Clarke in
nordamerica, la spedizione Langsdorff in Brasile, seguissero i fiumi: non era
solo comodità di spostamento, ma anche possibilità di avere un orizzonte più
vasto rispetto boschi sulle sponde.
I
ponti, dunque. Li voglio percorrere tutti, quelli sul Po da Pavia a Valenza e
anche quelli sul Ticino.
Splendidi
i ponti della Becca e della Gerola: gallerie di travi d’acciaio, strada in pavé
di porfido, una vista aperta sul fiume. Ponti vecchio stile con arcate
ravvicinate e via stretta adatta solo a far incrociare due mezzi piccoli, e
siccome l’accesso ai ponti è regolato da sagome limite sono esclusi tutti i
mezzi più grossi di un furgone, probabilmente anche i SUV (curiosa l’evoluzione
dei mezzi di trasporto privato, siamo passati dalle 500 ai SUV, macchine che
oggi potrebbero contenere le vecchie 500 nel loro cofano – viene da chiedersi
che magie facessero i meridionali che risalivano 1500 km di penisola con
famiglie e bagagli al seguito nelle loro leggendarie migrazioni e in un’epoca
senza autostrade). Grandi ponti monumentali, di un’epoca in cui unire due sponde
non era un semplice scavalco, ma significava spesso unire due civiltà o per lo
meno due aree geografiche, come il grande ponte sul Danubio, tra Giurgiu in
Romania e Ruse in Bulgaria: anche lì la strada di accesso pare una rampa, perché
per superare i grandi fiumi non si può arrivare all’improvviso, bisogna
arrivarci pronti e preparati all’incontro, in rettilineo.
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Ponte della Gerola |
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Il Po bruno |
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Ponte della Gerola, galleria d'acciaio |
Ogni
ponte monumentale ha intorno almeno un’osteria e un imbarco sul fiume, oltre a
bagnanti spesso romeni, quelli che non hanno nessuna intenzione di fare gli
schizzinosi e rinunciare all’acqua anche lontano dal mare. Al ponte della Becca
poi arrivi sorvolando i due grandi fiumi del nordovest: il Po bruno e
limaccioso e quieto e poi, dopo l’ultimo cuneo di sabbia, il Ticino verde e
all’apparenza più brioso; e sulla sponda Ticinese è un fiorire di ristorantini,
piscine, discobar, e anche un piccolo porto con darsena.
E’
ormai tardi quando percorro il ponte di Valenza, si avvicina l’ora di cena,
vedo la ferrovia che borda la strada e che supera il fiume a braccetto della
statale, e l’osteria sulla spalla della sponda sud. L’osteria oggi è chiusa, è
lunedì; penso a Paolo Rumiz che arriva anche lui un lunedì, ma per lui che
arriva dalle acque il padrone apre di buon grado la cucina, per me invece non
c’è nessuno, riprendo la strada, supero le colonne monumentali in mattoni
grassi rossi e mi porto ancora una volta oltre il grande fiume.