lunedì 23 maggio 2011

Silchester: alpaca pascolano tra le rovine romane

Un muraglione eretto con pietre di durissima selce e l’ovale delle tribune dell’anfiteatro appena fuori, ecco quello che resta nei secoli dei secoli di tante città romane, il cui resto visibile della gloria materiale dell’impero, giunto fino a qui, si riduce ai ruderi di costruzioni militari e di svago. Anche a il nome, a dire il vero, ricalca la sua eredità latina: sono a Calleva Atrebatum, oggi Silchester, cittadella romana del Berkshire, il suo nome risuona del mitico “chester”, chiarissimo rimando al “castrum” romano, e quel “Sil” iniziale che, a fare i latinisti della domenica, sembra proprio rifarsi a quella selce lucida e durissima con cui eressero il muraglione di difesa.
Dell’”accampamento di selce”, in realtà, non rimane molto altro: quardo all’interno delle mura, in una bella giornata di sole, ed ecco gli stessi dolci pascoli e blandi rilievi che si vedono anche alle mie spalle. Immancabili pecore pascolano dove c’erano le case della cittadina, piccoli ciuffi di foresta separano le proprietà dei pascoli. Si riesce a vedere tutto il perimetro del miraglione, provo a immaginarmi la città. Il muraglione, come ogni costruzione romana è stato trasformato in cava di pietra per costruire gli edifici nei secoli successivi dai pigri o disastrati medievali, proprio qui ne ha beneficiato la bellissima chiesetta protestante piantata nel suo immancabile giardinetto di erba rasa e brillante disseminata di lapidi di ardesia, perché se fossero anch’esse in selce sarebbe troppo duro scolpire i nomi e le date, e i vari Caesar, il cognome più diffuso su queste lapidi (non a caso, si direbbe), non potrebbero farci sapere del loro “passaggio in questa vita” nel 1777, o nel 1785, ma anche nel 2002.
In un pascolo appena oltre la chiesetta eccon un pezzo d’America che mi raggiunge anche qui: tre alpaca lanosi pascolano l’erba che nel loro continente non esiste. Sono uno bianco, uno bruno, uno nero. Quello bianco mi tiene d’occhio a distanza, quello nero ha la lana in testa che sembra un taglio anni ’50.
Sui paletti del recinto, Madame Anne annuncia le sue favolose torte fatte in casa.

Le scogliere di Dover

Seduti sul ciglio delle meravigliose e impressionanti scogliere bianco brillante appena fuori Dover, non ci sembra vero che questo sia il nostro ritrovo di nuovo tutti insieme dopo tanti anni di lontananza e fugaci incontri in Italia. Siamo qui, con la Francia nitida davanti a noi, il Continente, le navi in rotta tra le coste dei due orgogliosi e altezzosi vicini di casa europei e il pensiero del treno che corre sotto il mare.
Guardando il paesaggio, la sensazione è quella di passeggiare sopra il gessetto da lavagna (e infatti è così che lo chiamano qui: chalk). Queste rocce splendide coperte da un manto erboso brillante come uno smeraldo sembrano modellate da una macchina che abbia improvvisamente tranciato un bello e dolce paesaggio lungo una linea netta e strappato via la terra per fare posto al tavolato del mare 40 metri più in basso.
Stiamo appollaiati quasi sospesi a decine di metri sopra il mare, insieme a gabbiani in volo verso chissà quali nidi sulle pareti a strapiombo, e siamo proprio noi sullo stesso suolo in cui probabilmente tutto ebbe inizio 11 anni fa, l’epoca in cui dopo un mese insieme ci eravamo salutati dicendoci “allora ci ribecchiamo poi a Torino” e in realtà quasi sicuramente pensavamo “chissà se ancora mi ricorderò di te tra un mese”. Ci ricordavamo benissimo, e infatti dopo 11 anni siamo qui, non solo chi c’era 11 anni fa, ma anche chi c’è stato dopo.
Sembra proprio che tutto si ricolleghi a tanti momenti in comune che abbiamo avuto in cui ci siamo conosciuti o ci siamo scoperti un po’ più a fondo, specialmente qui a Canterbury: passeggiare tra le stradine del centro a ammirare l’arte delle casette medievali sembra quella passeggiata a Firenze l’anno scorso; ascoltare un coro e sentire un organista che prova nella immensa cattedrale riporta a una identica esperienza a York tanti anni fa.
Il finale di giornata è ancora una volta il nostro modo di essere: un ironico panino a Sandwich.

Gli italiani pensano sempre al cibo?

Kingston, capitale della Giamaica. Kingston, anche una delle svariate cittadine sparse per il globo che portano il marchio della colonizzazione britannica fino ai più sperduti scogli australi. Kingston, qui a Londra è però semplicemente un bel sobborgo in riva al Tamigi nella zona ovest, un Tamigi piccolo che potresti lanciare un pallone sull’altra sponda, già percorso da canottieri e abitato da cigni, dove il mare ancora non arriva a imporre le sue maree e tutto ha l’aria di una cittadina di provincia.
Cittadina da negozi chiusi sprangati nel giorno di festa, sfidando il vento forte tutti si riversano sul lungo fiume per il passeggio, come noi cinque, che dopo aver sfidato il vento abbastanza decidiamo di goderci la vista sul fiume da uno dei tanti locali sulle sponde eppure uno dei pochi ad avere la cucina aperta oggi che è festivo: come si fa a chiudere la cucina quando tutti sono in giro? Ma più in generale, come si fa a chiudere la cucina alle 8-9 di sera quando la gente esce? Qualunque italiano nel mondo francofono e in quello britannico si fa sempre queste domande, e infatti piacevole è la sorpresa di trovare aperto a Hither Green un delizioso localino perfettamente arredato in cui da bravi italiani nostalgici ci godiamo una colazione “dolce” nella patria del bacon e uova e salsiccia e fagioli: vedo i miei amici italiani migrati qui che quasi con la bava alla bocca e gli occhi lucidi pensano a cappuccini fatti come dio comanda, a focacce grondanti olio e piene di cristalli di sale, a ingredienti che non sono solo piante ornamentali; e del resto è proprio come mi sento io in Brasile durante il mio turno di prigionia, solo che per fortuna per me dura solo un mese. Noi italiani pensiamo sempre al cibo, proprio vero.
Col cibo davanti (tra l’altro, eccellente) di uno dei rari locali con cucina aperta a Kingston, cinque italiani si godono il pomeriggio col sole in faccia, ammirano la luce aranciata e tiepida del pomeriggio che filtra attraverso ricercate birre inglesi, si raccontano le loro storie da migranti e viaggiatori, ovviamente lontano da casa.

lunedì 9 maggio 2011

Bartali?


Il turista in casa oggi mi permette di godermi la città invasa per la combinazione di Giro d’Italia e adunata degli alpini. E io ci vado a vederlo, il Giro, ma non aspetto Bartali, il giorno non è appiccicoso di caucciù ma di gente pressata per la doppia occasione, tanto che la città oggi sembra immensa, forse perché con tutta la calca ci si muove lentamente e le distanze sembrano ingigantite come nelle classiche città turistiche.

Nella città paralizzata dal doppio evento con ressa nelle vie e vie sigillate per il giro io provo ad avvicinarmi col 4, per poi farmela a piedi vicino al centro, ma i mezzi nord-sud sono tranciati in due perchè in corso Vittorio passa il Giro, la città è come divisa da un muro di Berlino in cui chi sta a sud non può entrare in centro, chi sta in centro non riesce a uscirne. Ecco Porta Nuova, per un giorno la stazione è come la Porta di Brandeburgo, luogo d’incontro dei settori in cui oggi pare divisa Torino: in un senso la ferrovia che da sempre taglia in due la città a sud, nell’altro senso il corso Vittorio ermeticamente transennato e invalicabile. Passare nei settori divisi dalla ferrovia si può, basta sgomitare in stazione e tentare di passare tra est e ovest, impossibile invece è il passaggio nord sud per poter entrare in centro. Ci sarebbe la metropolitana, che scorre proprio sotto il corso, a permettere il passaggio tramite le stazioni che hanno scale di qua e di là. Ci sarebbe se non ci fossero i vigili a presidiare i varchi e anche a selezionare le decine di migliaia di persone che ci provano: un vero e proprio checkpoint; tra i presenti proviamo ad immaginare stratagemmi per oltrepassare il corso…

Ovunque è una parata di penne nere più o meno vere, ogni piazzola o aiuola è un campeggio per camper o tende (poter campeggiare tra i palazzi settecenteschi: beati loro!) con tavolate e cucine da campo, sia nei giardinetti del centro che, apprendo da alcuni alpini, lontano fino ai parchi lungo la Dora e la Stura. La sfilata è caratterizzata dal risaltare degli accenti mediamente nordestini (spiccano, forse perché al nord ovest sono meno comuni degli accenti meridionali) e soprattutto dal notare come gli alpini sentano irresistibile il bisogno di parlare urlando, cosa che si nota particolarmente con i gutturali suoni dei dialetti del nord. Per il resto sono sfilate di mezzi improbabili come api scoperchiate, carrettini con panche, trattori, macchinine modello, botti motorizzate, oppure cori improvvisati così come bande organizzate, vecchi amici che si ritrovano, nuovi che si conoscono, divertenti intrusi a cena. E con la festa degli alpini la città si riempie di almeno 400'000 uomini, e purtroppo bisogna dire che la differenza, in una città in cui di solito le pur belle donne escono ma non troppo, la differenza sembra quasi non notarsi.
Il Giro in questo marasma passa davvero, mistero come le ruote riescano a sopravvivere a quelle macchine affettatrici che sono i binari del tram tra l’asfalto disconnesso. Qui siamo lungo un corso e le squadre della crono ci passano davanti rapidissime, tutto quello che riesco a vedere dell’ultima squadra è nulla più che una macchia di colore di cui riesco appena a distinguere i caschi levigati e il nero degli occhiali da sole, tra torinesi che si incazzano e i giornali che svolazzano.