martedì 26 agosto 2014

Mattoni rossi grassi nelle terre d'acqua


Morimondo, i mattoni
grassi rossi
I bei mattoni grassi rossi smagriti con la sabbia di fiume sono, insieme ai ciottoli di fiume ove presenti, la pietra della pianura, ogni costruzione ne è fatta, inclusa l’abbazia di Morimondo, in bilico su un grande terrazzo fluviale da cui si domina la piana del Ticino. Dalla terrazza del ristorante proprio davanti all’abbazia vedo un vorticare di ciclisti e turisti: è una domenica di giugno già calda, centinaia di milanesi gitanti pedalano sulle ciclabili lungo i navigli e i canali, conversano, ciarlano, li sento discutere di affari o di gossip, davanti al classico risotto alla milanese o a un ossobuco insieme ad un boccale di buona Menabrea biellese.

Vie d'acqua a Morimondo
E’ arrivando abbastanza casualmente qui a Morimondo (dove “moriva il mondo” per i monaci cistercensi), suggeritomi dal titolo di un libro di Paolo Rumiz, che decido di partire alla scoperta di questi luoghi: un mondo di pioppi, di salici sulle sponde e nei cortili curati e fioriti, da qui fino al Ticino, a Pavia, al Po, un mondo di ciclabili o strade che costeggiano navigli, canali, prese d’acqua, mulini, cascine, abbazie, opifici a forza d’acqua, e ovunque sempre i mattoni grassi rossi. Terre d’acqua, acque di fiume e acque di canali. Acqua, come quella del Po che proprio Rumiz decide di seguire scendendo il grande fiume in barca, da dentro: sento lo stimolo a fare le mie scoperte di queste acque, da fuori.





Visualizzazione ingrandita della mappa

Decido di incontrare il Ticino, ed è una sorpresa: la strada scende da Bereguardo, chiusa in un bosco da zanzare casca ripetutamente su terrazzi fluviali via via più bassi, perdendo ogni volta svariati metri a più riprese tanto che mi accorgo di quanto sia incassato il Ticino rispetto alla pianura. Un piccolo rio morto di una delle tante lanche segno di meandri abbandonati, ecco infine “la spiaggia”: il Ticino è qui, solo in apparenza placido (vedo i mulinelli che ogni tanto risultano fatali ai nuotatori, infatti sull’altra sponda si celebra l’eroe che è morto per aver cercato di salvare dai mulinelli dei bagnati che non si erano resi conto del pericolo). Nessun ponte, ma una passerella su barche, parte galleggianti sul fiume, parte spiaggiate sulla ghiaia del fiume in magra. Un ponte di barche, quante imprese del passato mi ricorda? Il ponte sull’Ellesponto di Serse? Il ponte di Lucio Cecilio Metello sullo stretto di Messina? Il ponte di Annibale sul Rodano?

Ponte di barche sul Ticino di Bereguardo


Prendo le stradine, quelle lontane dalle statali, quelle che si infilano nei boschi o che servono appena ai trattori, quelle magari con l’asfalto consumato e le erbacce tra le crepe. Le stradine ti fanno scoprire il paesaggio piccolo, quello a misura d’uomo, e con un po’ di fortuna spesso ti svelano anche le piccole storie di questi uomini, che poi magari in alcuni casi si legano alla Storia più grande. E spesso le stradine nascondo piccoli gioielli. Come il mulino ad acqua appena fuori dal borgo di Zelata: una grande ruota ormai ferma sul canale di acqua ancora corrente tra erbacce e alghe di fiume, grandi attrezzi ancora di legno, tutt’intorno alberi e cespugli selvaggi che nascondono il canale; che abbandono… e pensare che ricordo di avere visto che nei paesi arabi la manutenzione di queste grandi ruote, le norie, è talmente importante che esistono uomini che lo fanno di mestiere spostandosi di villaggio in villaggio. E poi Zelata stessa, che in un lunedì mattina afoso estivo sembra la Spagna all’ora della siesta, quello stradone contornato da ricche cascine a corte interna percorso da rare biciclette, la chiesetta di mattoni rossi grassi e le statue in terracotta, e l’immancabile piacevole bed & breakfast sulle ormai popolari strade del gusto e della lentezza.
Altre stradine mi portano tra i campi a incrociare una presa d’acqua, appena sotto il borgo di Gropello Cairoli, a bordo della provinciale deserta. Nascosto tra i boschi, un edificio è costruito sopra la presa d’acqua; il luogo ameno comunica una grande quiete, ma l’erba è troppo alta e fitta per i miei calzoncini corti e non c’è modo di riesce a scendere al piano inferiore; ragnatele vecchie e piene di polvere che sembrano calzini appesi alle finestre quasi impediscono di guardare l’interno buio tra i vetri rotti.
Stradine tra i campi mi portano a Cascina Palazzo, agglomerato di cascine con architettura elegante e affiancate dai resti di un edificio (fabbrica, impianto di cava?) di cui rimane solo più una sottilissima parete alta 20 metri, pare sostenuta dagli alberi e tenuta ancora integra dalle edere. C’è una palina, passa un pullman da qui, provo a leggere gli orari: appena due corse al giorno.

Percorro le strade dei paesini che lambiscono la sponda nord del Po, seppur il grande fiume appaia distante: le strade si tengono sempre alla larga dai grandi fiumi, li vedi solo dai ponti. Paesini di pianura come Zinasco, Sommo, Cava Manara, che nascondono a sud la sorpresa di balconate e terrazzi panoramici sulle sponde del Po, rotonde sul mare di pioppi. Guardando una cartina non stradale ma da foto satellitare si spiega tutto: sono i grandi terrazzi fluviali modellati da antichi meandri del Po, ampie anse scavate nella pianura e abbandonate da secoli, ma ancora perfettamente riconoscibili dalla geometria dei campi e dei pioppeti. Ed è proprio sul filo di una cresta ritagliata tra due enormi antichi meandri che sorge la striscia di case del borgo di Sommo.

Pioppi dappertutto, ad abbellire i luoghi o fornire legname, presso le sponde dei fiumi e dei meandri abbandonati e lungo i navigli e canali. Nel mio primo viaggio in queste terre d’acque è primavera, le giornate lunghe e il clima caldo hanno già riportato in vita i pioppi, che ora caricano l’aria dei loro pappi: batuffoli ovunque, raccolti sulle strade come grandine, impigliati nelle foglie e nelle piante come rugiada gelata o intasando le ragnatele, ma soprattutto sospesi nell’aria, quasi immobili, come elementi sospesi in un umore vitreo quasi solido, gelatinoso.
La CeLesta corre in bilico sulla strada d’argine sinistro del Po presso Alluvioni Cambiò e perfora l’aria gelatinosa di pappi. Da un lato la pianura coltivata e protetta dalla furia delle alluvioni, dall’altro una distesa di campi sacrificabili alle alluvioni ma ancora lontana dal fiume.

Da quassù, su questo terrapieno, mi rendo conto che le strade d’argine e i ponti sono i luoghi più rilevati che si possano trovare in pianura, per questo è solo da tali luoghi che si riesce a vedere oltre un palmo dal naso, oltre le prime macchie di alberi e i campanili più vicini, per vedere cosa c’è oltre la pianura, cosa la circonda. C’è l’Appennino a sinistra, morbido eppure alto, i rilievi vicini dell’Oltrepò; i blandi rilievi del Monferrato davanti; a destra c’è la parete frastagliata delle Alpi. Provo a immaginare come dovesse essere in passato il paesaggio visto dalla pianura, quando era un ambiente spesso malsano acquitrinoso, boschi fitti, campi non estesi come oggi, era impossibile rendersi conto di cosa ci fosse intorno; allora, forse era solo dalle sponde dei fiumi che si riusciva a vedere oltre, lontano, guardando oltre la sponda opposta, o infondo al braccio di fiume. Così avevo notato quando, mentre con Andrea giocavamo a setacciare i sedimenti dell’Elvo in cerca di pagliuzze d’oro, in fondo al fiume avevo la chiara visuale delle montagne. Non mi sorprende quindi che i grandi esploratori continentali, Lewis e Clarke in nordamerica, la spedizione Langsdorff in Brasile, seguissero i fiumi: non era solo comodità di spostamento, ma anche possibilità di avere un orizzonte più vasto rispetto boschi sulle sponde.

I ponti, dunque. Li voglio percorrere tutti, quelli sul Po da Pavia a Valenza e anche quelli sul Ticino.
Splendidi i ponti della Becca e della Gerola: gallerie di travi d’acciaio, strada in pavé di porfido, una vista aperta sul fiume. Ponti vecchio stile con arcate ravvicinate e via stretta adatta solo a far incrociare due mezzi piccoli, e siccome l’accesso ai ponti è regolato da sagome limite sono esclusi tutti i mezzi più grossi di un furgone, probabilmente anche i SUV (curiosa l’evoluzione dei mezzi di trasporto privato, siamo passati dalle 500 ai SUV, macchine che oggi potrebbero contenere le vecchie 500 nel loro cofano – viene da chiedersi che magie facessero i meridionali che risalivano 1500 km di penisola con famiglie e bagagli al seguito nelle loro leggendarie migrazioni e in un’epoca senza autostrade). Grandi ponti monumentali, di un’epoca in cui unire due sponde non era un semplice scavalco, ma significava spesso unire due civiltà o per lo meno due aree geografiche, come il grande ponte sul Danubio, tra Giurgiu in Romania e Ruse in Bulgaria: anche lì la strada di accesso pare una rampa, perché per superare i grandi fiumi non si può arrivare all’improvviso, bisogna arrivarci pronti e preparati all’incontro, in rettilineo.

Ponte della Gerola
Il Po bruno
Ponte della Gerola, galleria d'acciaio
Ogni ponte monumentale ha intorno almeno un’osteria e un imbarco sul fiume, oltre a bagnanti spesso romeni, quelli che non hanno nessuna intenzione di fare gli schizzinosi e rinunciare all’acqua anche lontano dal mare. Al ponte della Becca poi arrivi sorvolando i due grandi fiumi del nordovest: il Po bruno e limaccioso e quieto e poi, dopo l’ultimo cuneo di sabbia, il Ticino verde e all’apparenza più brioso; e sulla sponda Ticinese è un fiorire di ristorantini, piscine, discobar, e anche un piccolo porto con darsena.
E’ ormai tardi quando percorro il ponte di Valenza, si avvicina l’ora di cena, vedo la ferrovia che borda la strada e che supera il fiume a braccetto della statale, e l’osteria sulla spalla della sponda sud. L’osteria oggi è chiusa, è lunedì; penso a Paolo Rumiz che arriva anche lui un lunedì, ma per lui che arriva dalle acque il padrone apre di buon grado la cucina, per me invece non c’è nessuno, riprendo la strada, supero le colonne monumentali in mattoni grassi rossi e mi porto ancora una volta oltre il grande fiume.